Moser a Roubaix. 40 anni, una storia

di Pier Augusto Stagi

Si sarebbe dovuta correre il 12 aprile scorso, invece la Parigi-Roubaix al pari delle altre classiche è stata differita a giorni migliori (probabile lo spostamento al 18 ottobre) per emergenza coronavirus. Quarant’anni fa - il 13 aprile 1980 - Francesco Moser vinceva la sua terza Roubaix consecutiva, precedendo di 1’48” Gilbert Duclos Lassalle, e di 3’30” il tedesco Didier Thurau. Quar­to, ad oltre 6’, un certo Bernard Hi­nault.
Telefonicamente abbiamo raggiunto il campione di Palù nel suo maso appena fuori Trento, tra le sue vigne e la sua terra.
Francesco, come va?
«Bene, lavoro più di prima, dalla mattina alla sera. Pensa che prima del blocco delle attività pesavo 84 chili, adesso 77: sono in forma smagliante. Sto rifacendo tutto l’impianto d’irrigazione. Qui non piove e la terra sta soffrendo tanto. Ci stiamo preparando per la ri­partenza».
Sei già chiaramente proiettato in avanti, ma facciamo un passo indietro: cosa ricordi di quel magico 13 aprile 1980?
«Stavo benissimo, corsa sempre nelle prime posizioni, giornata senza pioggia, poi nel finale a 25 chilometri dal traguardo vado via in progressione e non vedo più nessuno. È una delle mie 273 vittorie da professionisti che porto nel cuore con più piacere. Ero chiaramente il favorito numero uno e da nu­mero uno vinsi».  
Dal 1978 al 1980 sei sempre arrivato da solo su quella pista che ha scritto la storia del ciclismo nel mondo.
«La prima volta in maglia iridata, con De Vlaeminck che ne aveva già vinte quattro e che correva con me e quindi non poteva inseguirmi. Mi raccontarono in seguito che provò a convincere con dei bei soldi il connazionale Fred­dy Maertens a tirare, ma non so se sia vero. In ogni caso vinsi davanti a Ro­ger e a Raas. La seconda vittoria sempre davanti a Roger e Kuiper, ma io sempre da solo. Insomma, io lassù mi sono sempre trovato molto bene e a mio agio. Corsa difficile ma anche facile, perché se ci arrivi preparato e corri nelle posizioni di testa, lontano dal po­dio non ci vai. È una corsa di potenza e resistenza, io l’ho sempre amata».
È vero che il cubo di pavé come trofeo è un’idea che hai dato tu agli organizzatori?
«Per le prime due vittorie mi diedero una medaglietta, che era insignificante. Dissi: ma regalate qualcosa che sia più identificativo, questa è una corsa unica al mondo. Provate a pensare a qualcosa che non c’è: piuttosto regalate un blocco di pavé. Lo dissi a mo’ di battuta, l’anno seguente mi diedero come trofeo un pezzo di pavé, che badate bene, non sono pietre ma veri blocchi di quasi 20 centimetri per 20».
Poteva esserci anche il poker, se lei non avesse perso la volata con Bernard Hi­nault.
«Bernard non ha mai amato questa cor­sa, l’ha sempre considerata anti-ci­cli­smo, e per questo anacronistica. Quell’anno arrivammo al velodromo in sei: io, De Vlaeminck, Hinault, Van Calster, Demeyer e Kuiper. Insomma, i soliti. Per la volata ero convinto che fosse una questione tra me e Roger. Invece Hinault ci beffò clamorosamente. Entrò nel velodromo davanti e da li non si mosse più. Continuò a mulinare sempre più forte con una progressione impressionante. Noi dietro convinti che prima o poi si sarebbe calmato, non fu così: lui primo, Roger secondo e io terzo. Mi girano ancora…».
Sai che non vinciamo la Regina delle clas­siche dal secolo scorso: 1999, con Andrea Tafi…
«Ne parlavo in questi giorni: è pazzesco. Nel Duemila abbiamo solo raccolto qualche bel piazzamento nei tre (con Pieri, Pozzato o Ballan, ndr) ma non siamo stati più capaci di vincerla. Manca la scuola, il coraggio, la voglia di osare. Però sono convinto che prima o poi ce la faremo. Punto su Gianni Moscon, un trentino come me».
Ma c’è un segreto per primeggiare su quelle pietre?
«Ce n’è più d’uno, ma la prima regola è quella di non avere paura. È un sentimento che non si sposa con la Regina delle Classiche. Se hai timore è meglio restare a casa. Quelle pietre devono essere aggredire, guai subirle. Vanno sfidate, domate, con fermezza e leggerezza. Pedali di forza, volteggi nell’aria. Sei sì ciclista, ma anche acrobata. Poi però c’è anche un’altra regola fondamentale…».
Sono tutto orecchi.
«Bisogna saper correre davanti. La Rou­baix è unica non solo perché si corre sul pavé, ma anche perché è una corsa che premia chi osa, chi ha la for­za di fare corsa dispendiosa con il ven­to in faccia. È forse l’unica corsa nella quale non bisogna avere il “braccino”, ma la gamba, per non dire il gambone».
Si immagina un ciclismo senza Roubaix?
«Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla».
Il simbolo è sempre la Foresta di Aren­berg?
«Assolutamente sì. Io l’ho conosciuta proprio il giorno del mio debutto, nel 1974 (2° dietro a Roger De Vlaeminck, ndr). Mi avevano preparato, dicendomi cose pazzesche, eppure quando mi trovai in quel tratto di strada rimasi senza fiato. Lì inizia la corsa, lì la puoi vincere, tantissimi la perdono».

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