LUTTO. È MORTO L'UOMO-CALABRONE

LUTTO | 06/08/2015 | 12:39
E’ morto l’uomo-calabrone. Esaurita la miscela, spento il motore, da qualche mese continuava a girare per abitudine o inerzia, nella pista della vita, finché stamattina alle 6 si è fermato, è sceso dal derny, o forse dallo stayer, ed è volato via. Come nel destino, come nella natura, come nei sogni di tutti i calabroni, anche quelli umani.

Mario Dagnoni era l’uomo-calabrone. Uno di quelli autorizzati a vincere corse di ciclismo senza pedalare, o pedalicchiando, o fingendo di pedalare. Uno di quelli che andava come una moto, forte come una moto, perché cavalcava una moto. Lui davanti, il suo corridore dietro, attaccato, appiccicato, incollato, agganciato, sfruttandone la scia. Settanta, ottanta, novanta all’ora. Una velocità fiduciosa, una fiducia cieca, una fortuna veloce. Quattro ruote in fila indiana: un matrimonio pistaiolo, una complicità novecentesca, una sfida fumosa, fumante, affumicata, un esercizio circense, una magia acrobatica.

Aveva compiuto 80 anni, Mario, il 25 luglio. Era milanese di Segrate, milanese a parole, a tavola, a musica, a passioni, a cominciare da quella per la bicicletta, poi milanese nel lavoro, lavoro come dignità, come impegno, come disciplina, milanese di fabbrica e di cascina. Il ciclismo, da ragazzo, anche per lui era avventura, passaporto, cinemascope. Finché, un giorno, a Dalmine, durante una pausa-pranzo, invece che su una bici saltò su una moto, da solo, e via. Lo vide Edoardo Severgnini, un’autorità della pista, un sacerdote della “parrocchia” o della “consorteria” (come la chiamava Mario Fossati), e sentenziò: “Da oggi non corri più in bici, ma in moto”. “O sono un brocco in bici – sintetizzò Dagnoni - o sono un fenomeno in moto”. Si rivelò più una promozione che una bocciatura. Guidare è una questione di sensibilità che, o si ha, o non si ha, perché a fatica si conquista. Tant’è che chi guida la moto delle prove di mezzofondo non si chiama pilota, ma allenatore: venera il dio Eolo, studia l’arte del vento, distingue fra soffio e respiro, paragona l’aria all’acqua, la trasforma in fuoco. Stringere o allargare, anche di un niente, può significare dieci chilometri in più o in meno, salita o discesa, cime tempestose o calma piatta, ciclone o occhio del ciclone. Un teorema di traiettorie, non solo quelle dettate dalle ruote, ma anche dai gomiti, dalle spalle, perfino dalle caviglie. Mario si è così guadagnato 27 titoli italiani, tre Gran premi d’Europa (valevano come titoli europei), tre record mondiali e una novantina di gran premi internazionali. E siccome ha trasmesso la sua passione e tramandato la sua arte, come in una bottega rinascimentale, ai figli, ecco Cordiano che vanta tre titoli italiani, due europei e una Coppa Europa (e in più un titolo italiano da corridore), e Christian, che ha collezionato due titoli italiani (e l’elenco può essere stato fatto in difetto).

Le moto delle bici si chiamano stayer e derny. Gli stayer sono "bestie" da 1800 a 2200 di cilindrata, vantano porzioni di motori stellari di aerei, cioè degli otto cilindri dietro l’elica se ne prendevano due e si mettevano su telai artigianali. Monomarcia. Era il motore a fare la marca: Meyer, da Parigi, oppure Anzani, italiano, oppure Bac, che sta per British Anzani Company. Poi sono venute le moto commerciali, dalla Bsa alla Triumph, dall’Honda alla Cagiva, modificate e adattate. Infine i derny: “calabroni” derivati da motori di 50 di cilindrata e portati a 75, a presa diretta, miscela al 2 per cento, 80 chilometri all’ora. Come il Puch. Un piccolo mondo carburato e alesato, sbiellato e smarmittato, relegato al bianco e nero della memoria. E in cui non basta aprire il gas e andare a manetta. Il massimo sta proprio nell’intesa fra allenatore e corridore, quando un corridore segue l’allenatore, anche se questi decide di evadere dalla pista e volare in tribuna.

Per eccesso di sentimenti, i Dagnoni hanno trasformato il pianterreno della loro azienda meccanica in zona Lambrate in un piccolo museo, dove si godono una galleria del vento che sa di olio e cuoio. E lì si coccolano le loro creature. Un’Anzani rossa del 1914, 1800 cc, con cinghia di cuoio per la trasmissione: accesa, sfiamma dagli scarichi laterali e le se possono contare i battiti. Una Meyer, 2200 cc. Il derny di Jacques Anquetil, guidato da Tarcisio Vergani. E gli scooter: un Garelli 150, una Vespa sprint 150, una Lambretta 175. Un Gilera 300 che ha fatto la Roma-Napoli-Roma negli Anni Cinquanta. Il casco di Carlo Bordoni, in cuoio, a scodella.

Il vecchio Mario (il funerale sabato, alle 10.30, a Limito di Pioltello) aveva un desiderio, da far rimanere sulla carta: un libro sulla propria avventura a due ruote, come corridore e allenatore, come mecenate e dirigente, come azzurro e amico. Ma “Il volo del calabrone” era già stato scritto. E chissà se Ken Follett si era ispirato a lui.

Marco Pastonesi
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COMMENTI
CIAO MARIO!
6 agosto 2015 18:15 glennpeter
Ciao Mario, Riposa in Pace. Sentite Condoglianze alla famiglia Dagnoni!

Ma che bellissimo ricordo per l'uomo-calabrone.
7 agosto 2015 12:17 Bartoli64
Che bellissimo ricordo, doverosamente tributato a questo grande allenatore di stayer, e che bellissimo articolo ha scritto, con mano davvero calda, Marco Pastonesi!

Questo pezzo trasuda letteralmente di competenza, sentimento, emozioni, storia, struggenti ricordi in bianco e nero ed anche una profonda ammirazione per quanto ha fatto Dagnoni per il ciclismo su pista.

Sono sicuro che il buon Mario da lassù sarà contento di sapere che su di lui – che pure ha avuto una bellissima carriera sportiva – si siano scritte parole così belle.

Bartoli64

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