GIRO D'ITALIA | 08/05/2015 | 18:46 di Cristiano Gatti
Certo, tifo Aru. Tutti dobbiamo tifare Aru. E questo è il tifo sentimentale. De core. Ma se devo essere sincero, spudoratamente sincero, tifo in modo molto più ragionato anche per Alberto Contador. Certo perché resta comunque un campione votato allo spettacolo, anche umanamente molto gradevole. Ma ancora di più perché incarna un’idea superiore, quasi utopica, di ciclismo universale: il ciclismo di quelli che provano, rischiano, tentano. In questo caso, torna il tentativo di centrare la mitologica doppietta Giro-Tour. Sembra un sogno obsoleto e anzi ormai dichiaratamente rimosso, ma proprio per questo lo trovo ancora più grandioso. Contador si mette in gioco, sfidando figuracce e risatine, per realizzare il progetto più ambizioso di qualunque ciclista di qualunque generazione: vincere nello stesso anno le due più grandi corse a tappe, cioè vincere le fatiche e gli stress di due prove estreme nell’arco di poche settimane.
Certo io non sono Tinkoff, l’ipermilionario che aveva messo sul tavolo – almeno a parole – una pila di soldi per spingere i grandissimi a tentare addirittura la tripletta, aggiungendo pure la Vuelta. Non ho i soldi e neppure la crudeltà di coltivare questo progetto disumano. Però la doppietta Giro-Tour, porca miseria, continuo a pensare non sia al di sopra delle possibilità umane. Ci si capisce: nel ciclismo d’oggi, così esasperatamente e fanaticamente votato alla specializzazione, talmente sofisticata da indurre i campioni a sprecarsi soltanto tre settimane l’anno sulle orme del fulgido esempio di quel fenomeno d’Armstrong, in questo ciclismo freddo e cinico risulta oggettivamente difficile vincere Giro e Tour. Chi lo nega. Però il fascino del ciclismo vero, quello intramontabile, sta proprio nell’impossibile: cioè nell’idea che qualcuno, qualche superuomo, possa realizzare ciò che tutti gli altri ritengono impensabile.
Oggigiorno i megatecnici in circolazione spadellano grafici e tabelle per dimostrare scientificamente l’impossibilità della doppietta. E i corridori tutti quanti a piegare la testa, ben felici di consumarsi soltanto in una sola corsa a tappe: chi gli può chiedere uno sforzo in più, lo dicono pure i tecnici che non si può fare…
Poi ci sono i Contador. Che ieri si chiamavano Pantani – e non mi vengano a dire che lui era dopato, perchè rispondo tranquillamente che batteva gente più dopata di lui. Cioè grandi atleti, ma soprattutto grandi campioni, gente particolare che ama accarezzare l’impossibile. Cullare la follia. Inseguire il superlativo. Giro e Tour, perché no? Già, perché no? Se nessuno ci prova, nessuno potrà mai più riuscirci. Purtroppo, tifare Contador significa tifare un po’ contro Aru e contro Nibali, rispettivamente suoi avversari nelle due sfide. Ma vale la pena di tradire. Tuttalpiù, possiamo metterla così: in Italia come in Francia, al Giro come al Tour, se non saranno i nostri a trionfare dovrà essere proprio Contador. Merita l’affetto e la spinta di chi ama davvero questo sport. Lo sport dell’impossibile, dell’umanamente impossibile. E poi parliamoci chiaro: se il doping è la causa numero uno della crisi di questi ultimi decenni, subito al numero due ci sta questa manìa dei campioni moderni di spendersi soltanto a singhiozzo, in dosi omeopatiche, pochi giorni all’anno. Noi tifosi abbiamo bisogno di vedere e rivedere il campione, per amarlo davvero, per accompagnarlo negli alti e bassi, per condividere successi e pene, per gioire e soffrire allo stesso modo. Io tengo all’Atalanta (nessuno è perfetto), mai ho vinto e mai vincerò uno scudetto, ma non importa: molto peggio sarebbe vederla all’opera un mese all’anno e poi non ritrovarla più.
Dovrebbero capirla, una buona volta, gli ideologi del ciclismo: la primissima riforma da introdurre sarebbe quella della presenza e della costanza, vale a dire costringere i nomi più importanti a correre le cinque classiche-monumento e due dei tre grandi giri (in fondo, sarebbero 45 giornate di gara all’anno). Non importa che vincano o che perdano: importa ritrovarseli in video con regolarità, presenza fissa e consolante, altro che non sapere mai chi c’è e chi non c’è, come succede ormai in questo maledetto mondo moderno…
Per tutto questo, partiamo a cuore sereno: viva Aru, ma anche viva Contador. Con Alberto viaggia l’idea intramontabile di un ciclismo superiore.
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