Un conto aperto con la Grande Boucle da regolare a freddo? Diciamo semmai che Eric Boyer proprio non digeriva l’abbandono a cinque tappe dalla conclusione del Tour 1995. Così, l’oggi sessantunenne che allora gareggiava nella nostra Polti, ha chiuso il cerchio a trent’anni esatti di distanza da quel forfait che ne precedeva di qualche mese la chiusura anticipata della carriera.
Tre volte vincitore di frazione al Giro d’Italia, il buon Eric, come raccontato a L’Equipe in una lunga ed intensa intervista a Lèna Guihéneuf, ha portato a termine nel settembre scorso il suo ottavo Tour, testimone dell’assunto: “non è mai troppo tardi”.
“Alla partenza di quell’edizione 1995 non sapevo che sarebbe stata l’ultima recita alla Grande Boucle, dove ricevetti l’autorizzazione ad entrare nelle fughe assieme a Miguel Indurain et Johan Bruyneel. Accettai la proposta di Polti all’ultimo momento e non esitai a mettermi in gioco, sia che ritrovassi un buon livello, dopo dieci anni nel professionismo, e sia che scegliessi di fermarmi. Nelle fughe ci avevo preso gusto, quindi con l’arrivo delle montagne le cose sono cambiate”.
Boyer andò in difficoltà su Alpi e Pirenei, dove lo choc per la morte di Fabio Casartelli fu fortissimo nel gruppo, il giorno dopo giunto al traguardo senza che venisse calcolato distacco. Aggiunge: “ero in un tale stato di sofferenza fisica e psicologica che misi il piede a terra. Senza annunciarlo ad altri nei giorni seguenti il ritiro dal Tour 1995 decisi di smettere”.
Siamo all’estate passata. Eric, orgoglioso per quanto fatto nel ciclismo anche dopo la carriera di corridore (autista di un certo Bernard Hinault, addetto organizzativo della Parigi Nizza, specialista di gestione sportiva, general Manager Cofidis), riceve una proposta da amici: «chiedevano di pedalare insieme per una settimana nel Massiccio Centrale e nella Vaucluse. Negli ultimi tre anni ho avuto più tempo per pensare a me, viaggiando, andando in bici e correndo a piedi, con tanto di prima maratona disputata. E se all’inizio pensavo di fare tutto in solitaria come un bike-packer, ne ho parlato con Claude Droussent (storico redattore de L'Équipe), costituendo un gruppo di una decina di persone tra cui Patrick Chassé, mio vecchio chinesiologo, il meccanico di quando correvo con Guimard, ancora un meccanico ai tempi Cofidis ed un commilitone. Ah, pure un cugino».
Boyer ed i suoi compagni d’avventura si sono messi in sella anche sull’onda dell’orgoglio ferito: «si, perché il 20 luglio all'Étape du Tour (Albertville - La Plagne, 131 km) non andavo avanti. Non ho più toccato la bici fino al 12 - 13 agosto, quando ero in vacanza a fare rafting con la mia giovane figlia. Di quell’edizione 1995 ricordavo solo l’arrivo di Liegi, dove ero davanti, e la vittoria di Armstrong a Limoges, vista in tv. Ed ho pure ritrovato il posto esatto durante il quale mi ritirai, lungo il col de Marie-Blanque”.
A volte la memoria gioca brutti scherzi. Eric aveva dimenticato l’esistenza del Soudet, subito lì a presentargli il conto nella sua durezza. Le gambe hanno iniziato a girare, alla vigilia della Pau-Bordeaux, 236 km, saggiamente ultimata in due parti. La Montpon-Ménestérol - Limoges 165,5 km nel vallonato Limousin un pochino spaventava Boyer, che invece ha sperimentato positivamente la crescita della condizione con il passare dei giorni. Conclusione tra vena ironica ed emozione: «dopo la cronometro di 45 km attorno al Lago di Vassiviéres, terminata fuori tempo massimo, volevo arrivare sui Campi Elisi. Detto e fatto: è stato un momento forte, la chiara ed inestimabile percezione di un cerchio finalmente chiuso».
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