
Mondiale inedito: mai il ciclismo aveva corso la prova iridata in Africa. Mondiale durissimo: il percorso di Kigali, in Ruanda, propone 5475 metri di dislivello, il più alto di sempre. Mondiale condizionato: il timore delle profilassi sanitarie e i costi elevatissimi della trasferta sono i principali motivi di molte defezioni. Mondiale decimato: non ci sono Vingegaard, dirottato sull’Europeo, e Almeida, idem, mancano pure Van der Poel, concentrato sul mondiale mtb, e Van Aert, già in letargo. Mondiale in ogni caso vero: 267 i chilometri, distribuiti in due circuiti senza un attimo di pausa. Percorso che non favorisce certo l’idolo di casa, l’eritreo Bini Girmay, primo africano nero a vincere una classica e tappe a Giro e Tour. Fra le delegazioni quasi al completo c’è anche l’Italia, che non vince il titolo da 17 anni (Ballan, 2008) e non sale sul podio da sei (Trentin, 2019). Ecco le dieci facce sulle quali potrebbe spuntare l’arcobaleno.
Tadej Pogacar. Vince perché è il più forte in circolazione, perché nelle corse di un giorno in questa stagione è sempre arrivato sul podio, perché la durezza del tracciato lo favorisce più di tutti. Non vince perché la crono è lo specchio della forma e i segnali non sono stati buoni.
Remco Evenepoel. Vince perché non teme i percorsi duri, perché si è lasciato alle spalle i guai che l’hanno condizionato per tutto l’anno, perché nella crono ha dimostrato di essere al top. Non vince perché Pogacar rischia di rivelarsi la montagna più difficile per lui.
Giulio Ciccone. Vince perché da metà Vuelta in poi ha pensato ad allenarsi, perché nella prima Nazionale di Villa ha un ruolo da leader, perché va meglio nelle corse di un giorno che nei grandi giri. Non vince perché spesso spreca troppe energie e il mondiale non te lo perdona.
Richard Carapaz. Vince perché arrivare a luci spente nei grandi appuntamenti lo aiuta, perché in stagione non si è spremuto troppo per via dei guai fisici, perché sui tracciati duri dà il meglio si sé. Non vince perché è rimasto a lungo lontano dalle corse e potrebbe faticare a trovare il ritmo.
Isaac Del Toro. Vince perché sta attraversando un momento di grazia, perché è un altro che in salita si accende, perché quando è il momento di vincere non ha paura di nessuno. Non vince perché non ha squadra e a 21 anni il rischio di sbagliare per inesperienza è sempre dietro l’angolo.
Juan Ayuso. Vince perché ha tutte le qualità per farlo, perché è un altro che alla Vuelta ha pensato soprattutto ad allenarsi, perché non c’è occasione migliore per dimostrare di valere Pogacar. Non vince perché rispetto alla concorrenza nelle corse lunghe gli manca qualcosa.
Jay Vine. Vince perché è uscito dalla Vuelta tirato a lucido, perché il percorso è di quelli che lo stuzzicano, perché gode della massima fiducia dello staff australiano. Non vince perché un conto è conquistare un tappone quando sei fuori classifica e un altro sfidare i migliori faccia a faccia.
Oscar Onley. Vince perché i percorsi più tosti non lo preoccupano, perché il quarto posto al Tour gli ha dato la consapevolezza di poter stare in scia ai migliori, perché nei test premondiali è apparso in palla. Non vince perché la convivenza con Pidcock potrebbe condizionarlo.
Julian Alaphilippe. Vince perché ritrovare il feeling con la vittoria gli ha dato una bella spinta, perché al mondiale conta l’esperienza e lui ne ha più di tutti, perché quando indovina la giornata sa ancora far male. Non vince perché rispetto alla nuova generazione ha un passo più corto.
Mattias Skjelmose. Vince perché arriva al mondiale nella forma giusta, perché è un altro di quelli che ama le corse più dure, perché nelle classiche di primavera è stato uno di quelli che ha battuto Pogacar. Non vince perché non sempre è pronto a farsi trovare davanti quando conta.