
Faccio outing, senza vergognarmi di niente: prima di arrivare al Giro, ma anche durante la prima parte della corsa, ho sperato che vincesse Bernal. Bernal? Certo, Bernal. Mi ha sempre colpito la sua parabola umana, il ragazzo umile arrivato come diceva papa Francesco dall'estremità del mondo, grazie al suo talento salito fino ai vertici dello sport mondiale, poi un pessimo giorno qualunque sfracellato contro un pullman fermo, rischiando di morire. Ma da lì, con la sua forza e il suo coraggio, un ragazzo che ha saputo rialzarsi e tornare in pista, cercando da diverse stagioni il se stesso di prima, forse senza riuscirci mai, comunque con il sorriso di sempre, pronunciando parole dolcissime: “Non vinco, ma mi godo la bicicletta più di quando vincevo, mi basta la felicità di pedalare”. Sì, mi sarebbe piaciuto che il Giro senza grandissimi fosse suo, di un ragazzo della pasta di Bernal. Ma a quanto pare così non sarà.
Sarà Del Toro? Non è certo nemmeno questo, nel Giro senza la noia dominatrice di Teddy, ma nemmeno di un Vinge o di un Remco. E' il Giro aperto, incerto, eccitante che tanti sognavano e che l'anno scorso rimpiangevano, è proprio il Giro dell'equilibrio che si chiude all'ultimo chilometro. Diciamolo: Del Toro di certo non è Pogacar, nemmeno lo diventerà, ma tra questi sembra il meglio candidato. Però c'è Carapaz che più di tutti – l'unico – attacca, però c'è Yates, però c'è Gee. Però c'è concorrenza vicina e pericolosa. Tutto come ci si aspettava, come finalmente la vera montagna ha confermato, dopo due settimane in cui hanno pesato solo le cadute (Strade Bianche e Gorizia).
Del Toro l'avevano seppellito l'altro giorno, Del Toro risorge a Bormio. Con lui, destino parallelo, la sua squadra Uae, arrivata in Italia con la formazione Next Gen, bastevole comunque per essere la numero uno (vedi classifiche del caso).
Adesso Del Toro è atteso dagli scettici sulle salite lunghe del Regno Sabaudo (Bormio tappa breve, esplosiva, inattendibile perchè troppo adatta a lui, si sente subito dire). Fischiano le orecchie al pupone del Messico, ma questo è giusto e normale, tutta salute se vuole diventare Qualcuno. In ogni caso, affronta i due tapponi finali con un grande vantaggio: non deve più pagare la tassa Ayuso. Il suo coinquilino, partito come capitano e dissolto per strada, non è più in squadra a pretendere servigi e a dividere le forze. Rema alla deriva a distanze chilometriche, uscendo misteriosamente anche dal gioco di squadra. E' un tema, neanche tanto secondario. Può uno come lui sopportare di ritrovarsi degradato e depotenziato al ruolo di aiuto nella causa Del Toro?
Chi davvero studia da campione, in certi momenti e in certe situazioni ne è capace. La sua grandezza sta anche nel farsi piccolo, almeno per qualche giornata, almeno per necessità collettiva. Invece. Invece appare a tutti in mondovisione che Ayuso non sia di questa pasta. Si racconta che patisca i postumi di una caduta (Strade Bianche, ormai lontane come gli anni Quaranta), resta l'immagine di un presunto campione che alla prima salita puntualmente rincula, si chiama fuori, diserta, presentandosi al traguardo quando i transennisti brandiscono già la chiave inglese. Magari è solo un cattivo pensiero, magari è vera sofferenza immane, ma le sembianze richiamano nitidamente un'altra idea: il dispetto. Dispetto contro una squadra, la sua, che si è buttata sul compagno più giovane, causa evidenza dei risultati.
Toccherebbe a lui, con uno sforzo di lealtà e di generosità, riciclarsi in un altro Giro, almeno nel finale decisivo. Sarebbe ancora in tempo. Darebbe comunque un senso al proprio correre. Bisogna vedere se più di Yates, più di Carapaz, più di Pellizzari, questo Ayuso ingrugnito e ringhioso riesce ad accettare la vittoria di Del Toro. Non resta che misurarlo prossimamente. Al momento, sembra solo leader indiscusso della speciale classifica Ripicca.