GIOVANNETTI. «IL CASO ELDOR? CON IL SENNO DI POI NON RIFAREI GLI STESSI ERRORI»

INTERVISTA | 18/04/2020 | 07:38
di Stefano Fiori

 


Marco Giovannetti, 58enne campione olimpico della 100 chilometri a cronometro a squadre a Los Angeles 1984 e trionfatore della Vuelta di Spagna nel 1990, ha vinto in tutto sette gare tra i Professionisti dal 1985 al 1994, incluso il campionato italiano su strada disputato a Olbia e la tappa di Pian del Re al Giro d'Italia 1992. Poche affermazioni ma tutte di valore assoluto, alle quali vanno aggiunti i sette piazzamenti tra i primi otto ottenuti nella classifica finale di vari Giri d'Italia. Atleta estremamente corretto, tecnicamente completo, dal comportamento esemplare e mai sopra le righe, ormai da venti anni gestisce l'Hotel Le Cerbaie ad Altopascio e l'emergenza coronavirus non lo ha risparmiato, come ci dice in questa intervista.


«Ho sei dipendenti in cassa integrazione e gli affari vanno male, com'è immaginabile. Lunedì 13 marzo abbiamo inaugurato Villa Nadar alle Spianate, una struttura alberghiera che gestirà mia figlia Elisa, ma di clienti nemmeno l'ombra, almeno per ora. Anche l'albergo di Altopascio non ha più lavorato dopo quella data: abbiamo avuto due clienti, poi quattro, ma gli incassi attuali, purtroppo, li definirei da paura».

Qual è il tuo stato d'animo?

«Sono perplesso e sfiduciato, nessuno era pronto ad affrontare una situazione del genere, che sta tramutandosi in un disastro a livello economico per il settore turistico ed alberghiero, del quale faccio parte. Già prima del covid-19 riscontravamo una crisi strisciante e questo potrebbe essere il colpo di grazia, anche perché gli aiuti che ci vengono prospettati mi sembrano insufficienti. Dovremmo aggiungere debito a debito, per ottenere almeno 25.000 euro di prestito, ma questi soldi dovranno essere comunque restituiti... Lo Stato sta sottovalutando la situazione economica generale, così come ha sottovalutato la diffusione del virus nella fase iniziale; se non verranno adottate al più presto delle misure appropriate, prevedo un futuro devastante per imprese e famiglie».

Parliamo invece del Giovannetti ciclista: la vittoria più bella?

«Senza ombra di dubbio la Vuelta di Spagna 1990. Ero tesserato per il team spagnolo Seur e ben presto, a causa di problemi e incidenti vari, della nostra squadra restammo in gara soltanto in quattro. Il percorso della Vuelta di quell'anno non era durissimo come i tracciati più recenti e io approfittai di una fuga a lunga gittata per conquistare la maglia amarillo di leader in classifica. Comunque non fu certo una passeggiata fino a Madrid, poiché due squadroni come la Banesto di Delgado e Indurain e la ONCE mi attaccarono ovunque, anche lungo le discese... Fortunatamente per me, a un certo punto prevalse l'accanita rivalità tra questi due squadroni e così riuscii a vincere la Vuelta».

Un altro highlight fu il tuo successo nel campionato italiano a Olbia, nel 1992: che tipo di volata scegliesti per battere il tuo compagno di fuga, Faresin, reputato più veloce di te?

«Allo sprint sono sempre stato quasi fermo, ma ad Olbia eravamo morti entrambi e io potei impormi grazie a quel briciolo in più di energia che mi era rimasto nelle gambe. Fu un'altra giornata memorabile, grazie alla conquista di quella maglia tricolore che indossai per un anno».

Da dilettante, ci fu l'apoteosi con la medaglia d'oro nella 100 km cronosquadre, vinta alle Olimpiadi di Los Angeles in maglia azzurra...

«Una vittoria che mi ha proiettato nella storia dello sport olimpico, ma fu durissimo soprattutto il periodo di preparazione, sostenuto nei 40 giorni di ritiro e allenamenti sempre fuori dal villaggio olimpico, da isolati. A posteriori mi dispiacque molto di non aver potuto respirare e vivere quell'atmosfera unica che raggruppava giovani atleti di tutto il mondo».

Proprio in questi giorni è deceduto a causa del coronavirus Donato Sabia, mezzofondista azzurro di Potenza, tuo coetaneo e anche lui azzurro a Los Angeles 1984, lo conoscevi?

«No, non fu possibile incontrarsi alle Olimpiadi, comunque questa notizia mi ha rattristato parecchio».

Ci puoi raccontare cosa accadde nel 1993 quando scoppiò il caso Eldor?

«In breve, il team stava per chiudere a causa del comportamento irresponsabile di una persona alla quale avevo erroneamente accordato fiducia. Con noi rimase coinvolta anche l'industria di biciclette Viner e l'ancora di salvataggio ci venne gettata da quella persona eccezionale sotto ogni aspetto che è Ercole Baldini. Baldini ci presentò a Giorgio Squinzi che in breve formulò un accordo, offrendo a mia moglie Paola, rappresentante del Bici Club Azzurro quale società di gestione originaria, il ruolo di presidente pro tempore del neonato team Mapei. Io proseguii l'attività nel 1994 ma, a seguito di una brutta caduta con susseguente frattura di una vertebra, fui costretto all'abbandono delle competizioni. Nel frattempo la società di gestione venne ceduta totalmente a Squinzi, che affidò la parte manageriale ad Alvaro Crespi. In seguito lo sponsor tecnico Viner venne sostituito con Colnago e a me venne offerto il ruolo di addetto stampa: devo dire che mi sembrò una proposta del tutto inadeguata e, anche per orgoglio, non accettai. Mi resta tuttavia la soddisfazione di essere stato alla base della nascita del formidabile team Mapei, che negli anni successivi avrebbe dominato le corse ciclistiche di tutto il mondo con i propri, formidabili atleti».

In conclusione, ti rimproveri qualcosa?

«Patron Giorgio Squinzi dimostrò di avere già in mente grandi e ben precisi progetti riguardanti il futuro del team, mentre io pagai lo scotto dell'inesperienza a livello manageriale. Con il senno di poi, oggi non commetterei più certi errori».

 

 

 

 

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