GIRO D'ITALIA | 21/05/2018 | 07:12
Il Giro passava da Trento, proprio come oggi. Ma quello che per noi è un giorno di riposo - riposo si fa per dire, con il lungo trasferimento da Sappada nella notte e tutta la vigilia a spiare quella bestia difficile da addomesticare che è una crono piatta come l’Adriatico a Ferragosto - allora era una tappa di montagna. Si andava da Merano a Monte Bondone, 242 chilometri, terzultima fatica prima della fine della corsa. Eravamo più avanti di adesso nella stagione, era l’8 giugno. E fu una tappa da tregenda.
Tutto il 1956 fu un anno tremendo per le condizioni del tempo. Era cominciato il primo febbraio, con la bora che soffiava a 130 chilometri orari e aveva portato la temperatura a -8. A Bologna un’intensa nevicata ricoprì la città con uno strato di circa 20 centimetri. Il giorno dopo nevicava su tutta l’Italia del nord, mentre le temperature si abbassarono ulteriormente. Al Brennero il termometro segnò -26, a Trieste -9,2. Roma era tutta candida, tutta pulita e lucida, come canta Mia Martini in un’indimenticabile poesia. A Palermo nevicò il 7 e l’8 febbraio, e anche a Lampedusa venne la neve.
Quell’8 giugno in maglia rosa c’era Pasqualino Fornara, buon amico di Fausto Coppi. C’erano da scalare il Costalunga, il Rolle, il Gobbera, il Brocon e da ultimo il Bondone. Il giorno prima, sullo Stelvio, il sole aveva accompagnato la corsa. Ma la mattina a Merano pioveva, e il vento ti tagliava a metà. Al Passo Rolle la pioggia diventò grandine. Nel primo pomeriggio era tutta neve. Sul Brocon i corridori provarono a coprirsi con tutto quello che trovavano, maglie, mantelline, giornali. Le maglie di lana a maniche corte con l’acqua erano diventate macigni. Le bici pesavano più del doppio di quelle di oggi. A Vaneze c’erano venti centimetri di neve, a Vason il doppio. Vincenzo Torriani, il patron del Giro, disse che la corsa poteva continuare, perché la strada era libera.
Sul Bondone era anche peggio, non si vedeva da qui a lì. E c’erano 20 chilometri e 39 tornanti da scalare. Charly Gaul, giovane scalatore lussemburghese, alla partenza aveva più di sedici minuti di distacco dalla maglia rosa, e senza mettersi a contare o a calcolare semplicemente continuò a pedalare. Quando tagliò il traguardo, per primo, dopo 9 ore, 7 minuti e 28 secondi, era quasi congelato, lo tirarono giù dalla bicicletta di peso, gli dovettero tagliare la maglia con un coltello. Lui non riusciva a parlare, lo sguardo perso, le lacrime che gli si erano gelate sulla faccia. Gli misero i piedi in due mastelle di acqua bollente. Ci vollero ore prima che si rendesse conto di quello che era successo. Dietro di lui era stato anche peggio. Al traguardo la temperatura era di 10 gradi sottozero. Corridori svenuti, altri rifugiati in osteria a dimenticare bevendo. Fornara, con la maglia rosa, lo ricoverarono sul fondo di un furgone con una coperta addosso. Era stato il suo direttore sportivo a fermarlo, perché non ce la faceva più a vederlo patire così.
Erano partiti in 87, arrivarono in 43.
Gaul, che prima di quell’assurdità aveva ventitrè corridori davanti in classifica, si ritrovò in maglia rosa e due tappe più tardi festeggiò il suo successo al Giro d’Italia. Per ricordare quella tappa ogni anno da Trento al Bondone si corre la «Leggendaria Charly Gaul», e l’edizione 2018 sarà presentata questo pomeriggio al MUSE. Ai corridori del Giro di oggi, vogliamo semplicemente dire che non è mai finita, neanche quando hai più di sedici minuti di distacco.
Alessandra Giardini
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