GIRO D'ITALIA | 19/05/2018 | 07:12 Lei lo sa chi era Canavesi? Pier Paolo Pasolini rispose così, in una celebre puntata del Processo alla tappa a un impertinente Vittorio Adorni, che non voleva perdersi l’occasione di stuzzicare il famoso scrittore venuto ospite chissà perché da Sergio Zavoli. Pasolini amava la bicicletta, e il ciclismo. A diciotto anni, nell’agosto del 1940, lo aveva confessato in una lettera a un amico, scritta mentre era a casa di sua madre Susanna, a Casarsa della Delizia. «Ad ogni modo una cosa bella da essere confusa con un sogno, l’ho avuta: il viaggio da S. Vito a qui, in bicicletta (130 km.): esso appartiene a quel genere di avvenimenti che non possono essere raccontati senza l’aiuto della voce e dell’espressione. L’alba, le Dolomiti, il freddo, gli uomini coi visi gialli, le case e i sagrati estranei, le cime e le valli nebbiose irraggiate dall’aurora».
Anche a Roma Pasolini continuò ad andare in bicicletta, quando insegnava nelle borgate e non era ancora diventato un intellettuale riconosciuto. La bici era sport ma anche un mezzo di trasporto, un modo di esplorare il mondo. Era indipendenza e libertà. In bicicletta aveva imparato i quartieri di Bologna e i suoi dintorni. A Casarsa, dopo la guerra, avevo percorso chilometri e chilometri in bici per andare a insegnare. E anni dopo, a Roma, andava pedalando da Rebibbia, dove abitava, fino ai Parioli, al salotto letterario di Maria Bellonci.
La sua grande passione era il calcio. «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso». Ma il calcio non fu l’unico sport capace di ispirarlo. Per «Medea», al fianco di Maria Callas scelse il triplista bronzo a Messico ‘68, l’affascinante siciliano Giuseppe Gentile, per impersonare il suo Giasone. Ercole lo fece fare a un discobolo, Gianni Brandizzi. Pasolini giocava spesso a pallacanestro, una delle sue passioni universitarie, «sono schiappone, ma mi diverto molto». E confessava che lo sport era la sua «più pura, spontanea consolazione». D’inverno andava a sciare, d’estate faceva tutto quanto.
Aveva quarantasette anni quando Zavoli lo chiamò al Processo alla tappa. E lo scrittore famoso Pasolini si trovò di fronte il biondo corridore Adorni, che voleva a ogni costo sapere che cosa pensasse del ciclismo e dei corridori un famoso scrittore come lui.
«Come mai è qui? E’ venuto per farsi pubblicità o per vedere di fare un film? E’ convinto che siano solo faticatori della strada o pensa di tirare fuori qualche bella storia, qualche bel personaggio?».
«Questa distinzione non la farei mai, non ho mai un’idea così schizofrenica del mondo, nessuno è mai diviso fra pedalatore e uomo. Anche nel ciclismo c’è materiale di possibile ispirazione per uno scrittore».
Fu allora che Pasolini ammise di essere rimasto colpito dalle facce di Vito Taccone e di Michele Dancelli. E svelò di aver fatto il tifo per Severino Canavesi, un corridore degli anni Trenta. Uno che gli piaceva perché era controcorrente, e vinceva di rado. Uno che non aveva sponsor, era un indipendente, e sulla maglia biancoceleste sua moglie Ida aveva ricamato il suo nome, Canavesi. Uno che a trentaquattro anni, quando tutti lo consideravano ormai troppo vecchio, vinse un campionato italiano sotto casa, a Gorla Maggiore, dopo 180 chilometri di fuga solitaria, mentre in camera da letto Ida partoriva il loro terzo figlio, Enrico, che così fu chiamato Enrico Vittorio. Quel giorno Coppi arrivò quinto, Bartali settimo.
Lei lo sa chi era Canavesi?
Oggi la tappa del Giro tre chilometri e mezzo dopo il via attraversa Casarsa della Delizia, patria di elezione di Pier Paolo Pasolini.
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