STORIA | 07/03/2018 | 07:31 La corsa diventa una centrifuga. Attacchi, contrattacchi, inseguimenti. Soste pipì, soste bici, soste cadute. Ammiraglie, ambulanze, volanti. Sgommate dei diesse, scatti dei meccanici, staffette dei motociclisti. Ed è Zac, Mario Zacchetti, ad assistere il nostro camion-scopa, aprendo la strada e chiudendo i varchi. Il cielo è ingorgato di nuvole, le nuvole toccano terra e si trasformano in nebbia, la nebbia è viscida. Sullo sterrato si aprono e si moltiplicano i crateri, come dopo una pioggia di meteoriti.
Al km 68 ci chiede aiuto il dorsale 202. Sean De Bie, della Verandas Willems-Crelan, la squadra del campione del mondo di ciclocross Wout Van Aert. De Bie ha 26 anni, è belga di Bonheiden, in cinque anni di professionismo ha vinto un pugno di corse: la Classic Impanis-Van Petegem in linea, una tappa del Giro del Lussemburgo e una dell’Etoile de Bessèges, e la generale della Tre Giorni delle Fiandre occidentali a tappe. “Terrible, but nice”, tremendo, ma bello, sillaba. I fiamminghi sono sacerdoti a due ruote, sanno espiare colpe che neppure gli appartengono. E’ la sua seconda Strade Bianche: “L’altra volta mi sono ritirato dopo 60 km”. Stavolta otto in più. “Portatemi all’ammiraglia, appena possibile”. Accontentato. L’indomani, nel Gran premio industria e artigianato a Larciano, Sean arriverà quarto.
Verso il km 95 superiamo un gruppo di fantasmi: c’è un Androni non meglio identificato, forse il vicentino Marco Benfatto o forse il brasciano Mattia Frapporti, c’è il romeno Eduard Grosu, c’è il polacco Przemyslav Niemiec, c’è il siciliano Damiano Caruso. Chiediamo se hanno bisogno di un pronto soccorso. Sorridono, ringraziano, rassicurano, barbellano, balbettano: si fermeranno al rifornimento, tra i km 103 e 106, saliranno sulle ammiraglie, si salveranno.
Invece smontano dalle bici e montano sul Ducato il tedesco Lennard Kamna e il danese Mads Pedersen. Maschere di fango, paralizzate dal freddo. Chiedono da mangiare e bere, implorano calore, forse anche umano. Allotta li assiste con tavolette di cioccolato e confezioni di pocket coffee. Per Lennard e Mads è la prima Strade Bianche della vita, e c’è da giurare che non se la dimenticheranno più. Il tempo di rinvenire, riaversi, ritrovarsi, e già pregano di farli scendere, a Monteroni, torneranno in albergo in bici, la Torre del Mangia come punto di riferimento.
Intanto noi talloniamo il dorsale 146. Un uomo solo in fondo al gruppo. La sua maglia è verde, il suo sponsor è EF, il suo nome è Taylor Phinney. Ventisette anni, statunitense, ha vissuto in Italia e parla italiano. E’ uno abituato a stare davanti, non dietro: campione del mondo a cronometro a squadre, campione del mondo nell’inseguimento su pista, anche maglia rosa al Giro d’Italia. Lui lotta, noi lo ammiriamo. Lo svantaggio, però, aumenta. “Taylor, ci dispiace, ma dobbiamo superarti”. “Perché? – ribatte -, ci sono altri quattro poco davanti a me”. A occhio non si vedono. Scopriremo che sono otto, ma scopriremo anche che il buco è grosso e il distacco pesante. Taylor vorrebbe finirla, la corsa, ma senza il camion-scopa sa che si farà dura. “Ordini di scuderia”, spieghiamo, scaricando la responsabilità. Taylor arriverà in Piazza del Campo, ma fuori percorso e fuori tempo.
Più avanti raccogliamo il dorsale 176. Lennard Hofstede. E’ olandese, ha 23 anni, è al suo secondo anno da professionista e alla sua prima Strade Bianche. “Sono caduto nel primo tratto di sterrato – racconta, come per giustificarsi – e da lì in poi è stata dura”. Siamo dalle parti di Asciano, a una sessantina di chilometri dall’arrivo. Lennard studia la mappa, scuote la testa: “Non ha senso andare al traguardo in bici”. E’ così: questo è uno dei punti più lontani da Siena. Si rassegna a restare sul camion-scopa. Cioccolato, pocket coffee, acqua gasata. E riscaldamento, per favore, al massimo. Rimasti senza cibo, chiediamo aiuto a Giampaolo Cheula, direttore sportivo dell’Androni: ci allunga, al volo, tre barrette.
A 50 km dall’arrivo abbiamo diciotto minuti di distacco dalla testa della corsa. Quando siamo a 20 dall’arrivo, Benoot pedala a 6 dalla vittoria. Quando siamo ai meno 16, Benoot alza le braccia al cielo e la sua prima vittoria da professionista si sublima a trionfo. Nel frattempo stiamo scortando otto ritardatari, che senza cattiveria ingoiano altri tre colleghi sfiniti. Se gli ultimi 10 chilometri sono un inferno, la salita di Santa Caterina si rivela un calvario. Arrivano tutti e undici insieme, come su un gommone nel Mediterraneo, a quasi 34 minuti e mezzo da Benoot, soffrendo, zigzagando, schiattando, ma spietatamente fuori tempo massimo. Il britannico Scott Thwaites, l’eritreo Merhawi Kudus, il lussemburghese Laurent Didier, il lettone Aleksejs Saramotins, il francese Jérémy Roy, l’olandese Laurens Ten Dam, il giapponese Sho Hatsuyama, gli italiani Raffaello Bonusi, Marco Tizza, Damiano Cima e Marco Marcato. A loro modo, ce l’hanno fatta. Alle 16.22, alle loro spalle, tagliamo il traguardo anche noi tre. Hofstede fa ormai parte della famiglia, ma a questo punto si dissocia, ringrazia e saluta, scende dal camion-scopa e risale in bici, si insinua nei vicoli e si confonde fra la gente, torna dai compagni.
Strade Bianche, perché l’inchiostro si veda meglio. Camion-scopa, perché fino all’ultimo respiro. Giornalismo, perché questo è un articolo di fondo.
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