STORIA | 06/03/2018 | 09:05 Il camionista-spazzino, che impugna il volante e brandisce la ramazza, si chiama Fabio Allotta, ha 49 anni, è di Monza, ha la patente B e il diploma di perito elettrotecnico. Indossa un giaccone nero di ordinanza con scritte rosa, pantaloni neri, berretto di lana grigio e scarpe Timberland artigliate gialle. Sposato, con Luisella, e un figlio, Mirko, di 10 anni. La sua passione è – indovinate – il ciclismo.
Il primo eroe, per sentimenti, Francesco Moser. Il secondo, per territorio, Gianni Bugno. Adesso, per conoscenza, Daniele Bennati, e per sangue (le origini familiari sono siciliane), Vincenzo Nibali. La sua prima squadra, la Polisportiva Nova Milanese. Primavera esordiente junior dilettante di seconda dilettante di prima. Campione provinciale e campione lombardo. E, per dirne una, la vittoria nella Como-Brunate davanti a Ivan Gotti. Finché ha capito che più di così non ce n’era. E scese di bici.
La prima corsa da auriga pilotando Michele Acquarone, direttore del Giro d’Italia. Poi accompagnando i vip. Giri d’Italia, anche nel Dubai e a Abu Dhabi. Questa è la sua terza Strade Bianche, ma la prima in fondo alla corsa, la prima per gli ultimi, la prima per i nip, i not important person, la prima per i primi ad arrendersi, i primi ad abbandonare e ad abbandonarsi. Il tempo è abominevole. Le donne sono partite un’ora e mezzo fa, con quattro camion-scopa. Gli uomini proprio ora, solo con il suo furgone di salvataggio. Centoquarantasei schiaffeggiati dalla pioggia. Pronti. Via. Sono le 10.43 alla partenza ufficiale, tre chilometri, le 10.46 al chilometro zero, l’andatura è – come certifica radiocorsa – sostenuta, e qui in fondo al mondo si va a frustate. Fabio non lo nasconde: è emozionato. Io pure. “Avrei dato l’anima – confessa - per correrla”. Io forse l’ho data per seguirla così, seduto davanti, mappa quaderno penna.
Centottantaquattro chilometri di strada, 63 sono di strade bianche in 11 settori, il primo tratto, il tempo di inzupparsi e raggelarsi, dal km 17,6 al km 19,7. Saranno anche state strade bianche, ma queste sono già ocra minerali mobili, è un po’ come pedalare in un fiume di vernice, la stessa inconsistenza, lo stesso colorificio, lo stesso effetto dei panni lavati nei fiumi africani.
Al km 25 il primo possibile cliente, la sua maglia era rossa, il suo numero il 27. Matteo Spreafico. E’ figlio d’arte. Suo padre Maurizio correva negli anni Ottanta. Anche lui visse una giornata da tregenda, quella volta anche la sua strada era bianca, ma di neve: sul Gavia, Giro d’Italia 1988, altitudine 2600 e passa di storia e sofferenza, di brividi e memorie. Spreafico gira la bici e torna indietro: non ha dimenticato nulla, forse non si ricordava che il ciclismo è anche pugilato, è anche rugby, è anche religione, e questa corsa oggi sa proprio di penitenza.
E’ così che a ogni pedalata il gruppo si spezza, si sbriciola, perde i pezzi, e i pezzi tornano sulle loro pedalate. Il costaricense Kevin Rivera, il norvegese Truls Korsaeth, lo spagnolo Joan Bou Company, il portoghese Nuno Bico. Altri salgono sulle ammiraglie. Il trevigiano Leonardo Basso, il bresciano Alessandro Bisolti. Infangati, inzaccherati, irriconoscibili. Fradici, congelati, sporchi. “Puro ciclismo”, dirà Tiesj Benoot, il belga vincitore.
Marco Pastonesi (fine della seconda puntata – continua)
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