Il ciclista parla come gli italiani
di Gian Paolo Ormezzano
Ma per quanti anni ancora dovrà, dovremo, dovrete sopportare la gente che in televisione o alla radio ha modo di ascoltare le cose che dice un ciclista, di valutare le sue idee, e subito prova un piacere-dovere nel dire: «Ma come è bravo... E io che pensavo che i ciclisti sapessero solo dire “ciao mama”». O, peggio ancora, perché sembra che venga accertato un cambiamento epocale: «È finito il tempo del ciclista che dice “ciao mama” e basta».
Qualcuno, per dimostrare di possedere bene la materia, aggiunge: «“Ciao mama”, con una emme sola, ed era un miracolo quando il pedalatore non diceva anche, dopo aver vinto la corsa, che era contento di essere arrivato uno, anziché primo, e ringraziava il parroco del paese per il suo tifo».
Sicuramente nessun ciclista ha mai detto “ciao mama”, se non indirettamente nella canzone del Quartetto Cetra, e per motivi di rima: «Ciao mama - il commissario tecnico mi chiama».La dizione “commissario tecnico” appartiene al mondo del calcio ben più che al mondo del ciclismo, e a questo mondo si riferiva nella canzone, venendo poi allargata indirettamente a tutto lo sport. Sicuramente nessun ciclista ha mai detto di essere arrivato “uno” anziché “primo”.A mia memoria, mia di innamorato della lingua italiana, nonché di discreto radioteledipendente, ricordo soltanto un ciclista autore di uno svarione particolarmente grande e altissimamente, freudianissimamente emblematico, quello che disse che era ora di “sfasare” la leggenda dei ciclisti in crisi di fronte ai microfoni. Ma c’è stato ben di peggio e soprattutto di meno genuino in altri sport.
Qualcuno, quando mi arrabbio, magari anche mi indigno per certi difetti appioppati al ciclismo e ai ciclisti, dice che sbaglio, che il ciclismo ha tutto da guadagnare a passare per sport ruspante, per posto di dialetti, di italiano rimediato, comunque sempre di genuinità. Io penso che si possa essere genuini anche rispettando la grammatica e la sintassi, e che il gioco di fingere di apprezzare le puzze, facendole passare per sani profumi, è vecchio come il mondo, è un marchingegno della cosiddetta classe dominante, quella che nel week-end manda in giro i suoi rappresentanti a fare i “gentlemen farmers”, a fingere di zappare la terra (dei loro possedimenti) per proclamare che la situazione dei contadini, il loro stare nei campi tutti i giorni che Dio comanda, è un meraviglioso privilegio.
Iciclisti parlano esattamente come gli altri italiani. Alcuni di loro, a somiglianza di tanti sportivi celebri, i calciatori in testa, parlano come i giornalisti li hanno fatti parlare nelle interviste inventate, o diluite sulla base di loro stringate considerazioni. Il fatto è che i ciclisti, anzi tutti gli atleti noti e dunque “meritevoli” di interviste hanno letto le interviste stesse, hanno assimilato alcuni concetti e automaticamente si sono messi a parlare in un certo modo. Casomai si dica che i ciclisti, per estrazione geografica e quindi dialettale, parlano in maggioranza con accento genericamente nordista, in questo senso allontanandosi dalla mezza regola radiotelevisiva che ammolla piuttosto accenti del centro e del sud. Ma questo è un rilievo formale, che non c’entra con la considerazione sulla sostanza delle dichiarazioni.
Ci preme invece di sostare ancora per qualche riga sulla scarsa predisposizione del ciclista di essere animale salottiero, come provato anche dalla scarsità quasi assoluta di sue unioni, di suoi accoppiamenti con bipedi, di sesso opposto al suo, appartenenti al mondo dello spettacolo in senso lato. Ammesso che sia tutto vero, e magari lo è, chi ha deciso che si tratti di cosa brutta, o anche soltanto di faccenda sminuente? È così grave non andare nei salotti dello show-business, non accompagnarsi con quelli che Pitigrilli definiva “mammiferi di lusso”, e intanto magari saper amare i campi, e non da “gentlemen farmer” ma da contadino figlio di contadini?
Andiamo oltre: se ci fosse finalmente un ciclista che saluta alla tivù la mamma, e non importa con quante «emme», gli offriremmo la nostra riconoscenza, le nostre benedizioni. Anzi, al posto di un campione, di unPantani o di un Bartoli o di un Cipollini, aspetteremmo l’occasione per dire, recitare la famosa frase, e così liquidarla del tutto, fossilizzarla immortalandola con tanto di registrazione radiotelevisiva.
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Frequentando anzi rifrequentando un pochino, per ragioni sportive, Sergio Zavoli, ho potuto felicissimamente rintracciare in lui una voglia di ciclismo, e persino di Processo alla tappa, che sta sicuramente nel suo dna di romagnolo praticante (“marxista-riminista”, lo definì Carlo Mazzarella alludendo anche alla sua fede politica, quella di - definizione dello stesso Zavoli - “socialista di Dio”), ma che è stata attizzata dalla realtà, cioè dal fluire accanto a lui, per un lungo periodo della sua vita, degli eventi ciclistici, dei pedalatori del Giro d’Italia.
Sergio mi ha più volte detto, in tanti anni di sodalizio comunque mantenuto, anche mentre lui era presidente della Rai: «Mi piacerebbe rifare il Processo con alcuni amici, te compreso si capisce». Le cose non sono andate esattamente così, ma mi piace qui ricordare l’esperienza di allora, e la persistenza dei valori di una trasmissione (valori pubblici e anche privati): questo in un mondo dei più futili e immemori.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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