È tempo di conquistare le città
di Gian Paolo Ormezzano
Mentre il ciclismo fa finta di prendere sul serio l’Olimpiade, cioè una manifestazione dove la bicicletta ha spazi ridotti, è appena tollerata, e nella cartellonistica dei Giochi occupa poche righe, come una comparsa, noi pensiamo che si debba, si dovrebbe enfatizzare al massimo il senso di una cittadina anzi un paesone francese, Plouay, che è stato occupato dalla manifestazione iridata della strada.
Plouay si è guadagnata (o guadagnato? femminile se è città, maschile se è paese, almeno per la lingua italiana) questo diritto offrendo ogni anno, ad un circuito a ingaggi, una kermesse, la folla amica e appassionata di duecentomila persone. Plouay va usata (usato), ma intanto deve essere spettacolo scontornato, isolato. Poi il ciclismo dovrebbe anche proporre e se del caso imporre, per una settimana iridata, l’occupazione di una grossa città, diciamo Parigi o Barcellona o Bruxelles o Milano (non Roma, no, non oseremmo mai pensarlo, frequentare tanta audacia immaginativa...).
Ci leghiamo a quanto scritto più sopra. Occupare una città e con gente dal look nuovo. A rischio di prendere fischi, uova marce, colpi di clacson sparati da furiosi automobilisti che nel portabagagli tengono una bicicletta inutilizzata.
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Faccia ognuno di noi un personalissimo esamino di coscienza, rispondendo a questa domandina: quando viene annunciato un caso di doping nel ciclismo il primo impulso è di credere che si tratti di reato vero?
Se la risposta è sì, si passi poi a considerazioni assortite, quelle che aiutiamo a fare nelle righe che seguono. Se è no, si smetta di leggere questo articolo, che è dedicato ai puri di cuore e di testa. Considerazioni assortite:
il doping nel ciclismo è creduto a priori, la vera notizia sensazionale è quella di una serie di esami che non hanno portato alla scoperta di nessun reato;
∑ il doping nel ciclismo è ritenuto una sorta di malattia esantematica, di quella che ogni corridore, e con esso tutto il suo sport, deve fare;
∏ la stessa malattia esantematica garantisce da ricadute, una volta fatta, ma non da cadute in altre malattie sempre esantematiche: e cioè se uno si dopa con un eccitante viene automaticamente considerato prossimo malato di doping da ormone, o da epo;
π il ciclismo non gode a priori, come invece il grande basket professionistico e ormai anche il calcio, della considerazione liberal di droga sociale, a proposito dell’assunzione, mettiamo, di cocaina, droga cioè per proprie motivazioni personali e non invece per alterare a proprio profitto il risultato di una gara: ragion per cui se un cestista o un calciatore celebre viene scoperto cocainomane ha diritto a tutta la comprensione per il suo dramma personale, mentre se un ciclista venisse scoperto cocainomane sarebbe esecrato alla grande.
Naturalmente il ciclismo ha le sue brave (cioè cattive) colpe nell’avere ingenerato questo tipo di ragionamenti e soprattutto di sragionamenti nei suoi riguardi. Un po’ perché la sua frequentazione del doping è stata davvero eccessiva, così da creare rapporti, immedesimazioni di grande pericolo, un po’ perché ha cercato spesso di giustificare certe sue pratiche chimiche o terapeutiche con esigenze speciali di fronte a fatiche specialissime: con lo stesso criterio, adesso non ci sarebbe maratoneta in grado di liberarsi dall’accusa di dopato.
Le colpe del ciclismo sono anche, sia chiaro, colpe dei giornalisti ciclistici, troppo innamorati del loro sport e dunque troppo ingenui, troppo fresconi. Parlo anche e magari soprattutto in prima persona. Ho frequentato molto, da giornalista interessato, anche appassionato, ma non innamorato, lo sci, sia alpino che nordico: con gli atleti di quelle due discipline ho avuto, sul doping e dintorni, colloqui molto ma molto più aperti che con i miei amici, amiconi ciclisti. D’altronde un padre parla di sesso più facilmente con ragazzi qualsiasi che non con i propri figli.
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Già è capitato di scrivere di Coppi nel senso di attualità del personaggio, del mito, anche e soprattutto attraverso varie iniziative che certificano la sua sovresistenza. Però quasi ogni giorno porta al giornalista che, magari soltanto per squallide ragioni anagrafiche, viene ritenuto testimone del tempo di Coppi, nuove segnalazioni di culto.
Qui vogliamo soltanto dire di come Coppi appaia così grande da resistere benissimo anche alla spartizione del suo ricordo, nel senso che battagliano città e paesi, tavole rotonde e inaugurazioni, esposizioni e manifestazioni, sempre dicendo di lui, e lui anziché apparire in parti, in porzioni sempre più piccole di se stesso, lui è sempre, è totale, assoluto, completo in ogni particola. C’è tutto Coppi, insomma, in un pomeriggio a Castellania come in una seduta di cineclub a Tortona, in un banchetto a Novi Ligure come in una iniziativa togata ad Alessandria. Basta un cartello con il suo nome, un manifesto, una targa, una lapide, e lui è presente in pieno. Si facesse un grande dibattito sul rapporto fra Fausto Coppi e la caccia alla quaglia sulle sue colline lui apparirebbe sempre come il Campionissimo.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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