aro Auro,
scusa se mi intrometto, ma a questo punto mi sembra doveroso dare una giusta sottolineatura a quanto ti e ci sta capitando. Il problema è che questa vita macina tutto quanto a ritmo forsennato, facendo passare qualsiasi cosa per normale, schiacciando gli avvenimenti in un piattume senza più gusto e senza più sapore, finendo per toglierci persino la capacità e la sensibilità di rilevarne il significato. Entrando nello specifico: a me pare che l’eredità di Adriano De Zan, nella storia della televisione, dello sport, del costume, non sia un fatto secondario. A me pare, anche a costo di passare per poetazzo di provincia, che non sia un passaggio qualunque, uguale a tanti altri, come quando al Festival di Sanremo una bonazza bionda rileva una sventola mora. Lì davvero una vale l’altra, a parte qualche rilevante differenza di misura e di reggiseno. Ma in questo caso no, non è lo stesso: De Zan è nel bene e nel male la storia del ciclismo, almeno dell’ultimo mezzo secolo di ciclismo. De Zan è un volto, una voce, uno stile, un modo di esprimersi. De Zan è ormai uno di famiglia, è noto e popolare almeno quanto i Gimondi, i Merckx, i Moser, i Saronni, i Bugno, i Coppolillo e i Mario Beccia. La gente che ha amato, seguito, guardato il ciclismo, insomma le tante generazioni che negli afosi pomeriggi estivi si sono sparati ore di diretta tivù, questa gente alla fine si è affezionata. Magari qualche volta avrebbe anche preso a testate il buon Adrianone, magari altre volte l’avrebbe licenziato in tronco, ma come succede tra amici: affezionandosi alla fine persino ai suoi difetti.
Purtroppo, la lunga epopea del nostro telecronista più bravo e più longevo, che ha preso la televisione in fasce e l’ha portata fino ai satelliti del terzo millennio, volge al termine. Ancora adesso viene naturale considerarlo intramontabile, ma gli anni sono passati anche per lui. Per tanto tempo ci siamo chiesti: e dopo? Chi dopo di lui? Ad un certo punto sembrava che la griffe De Zan avesse provveduto in proprio, sfornando un De Zan 2 e destinandolo alle reti concorrenti. Ma è bastato poco per capire che non era lo stesso. Le virtù dei padri sono come le colpe: non ricadono sui figli. E comunque la situazione si è risolta da sola, col ritorno del ciclismo nella scuderia Rai. Ed eccoci a te, caro Auro: dopo tanti anni, dopo tanta attesa, il Tour tocca «al Bulba». L’inizio, solo l’inizio, di una investitura che appare ormai definitiva.
E’ per questo che ti scrivo: a nome di tanti affezionati telespettatori, che considerano il ciclismo uno sport altamente televisivo, dove la voce del racconto vale quanto i gesti di chi lo interpreta in bicicletta. Ti scrivo per chiederti se ti rendi conto del dolce peso - della fortuna, diciamolo - che ti tocca. Ti rompo le scatole perché mi pare invece che forse ancora fatichi a cogliere: nelle tue ultime apparizioni - sia detto senza offesa - mi è parso di scorgere già una certa routinizzazione, per non dire di veri e propri segnali di svacco. Avevi cominciato bene, un paio di stagioni fa, sulla tua moto in mezzo al gruppo. Ma poi, non so perché, ti sei un po’ seduto. Forse sottovaluti l’impegno, o forse la moto ti ha semplicemente stufato. Così - anche questo sia detto senza offesa - hai preferito esprimere il meglio di te in altri impegni a margine, come le scommesse (lecite, ci mancherebbe) o il concorso pronostici (in questo, devo ammetterlo, sei fortissimo). Dirai: sono fatti miei. E non posso darti torto. Ma non sono più fatti tuoi il ruolo che ricopri: se permetti, il commento delle grandi corse è un fatto riguardante tutti noi, non è una tua questione privata, anche per il solo fatto che svolgi un servizio pubblico e la gente deve ascoltarti per ore.
Allora, sono alla fine. Prendi questa lettera per quello che è: un affettuoso e amichevole invito a fare grandi cose. A tirare fuori il meglio di te, a impegnarti fino alla spasimo. A chinare la schiena umilmente com’è richiesto in tutti i lavori, senza pensare mai - neppure per un attimo - di essere ormai «imparati». Noi saremo qui, da questa parte del video, ad ascoltarti e a giudicare. Sapendo benissimo che non ti aspetta una cosa facile, sapendo benissimo che ogni paragone sarà comunque ingiusto. Se permetti una stupida ironia, stavolta prova a puntare tutto in una scommessa molto particolare: la scommessa della vita, la scommessa più ardita e la più affascinante. La dolce scommessa su te stesso.
Cristiano Gatti, bergamasco inviato de “Il Giornale”
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