In Piemonte lo sport è passato remoto...
di Gian Paolo Ormezzano
Chiedo scusa del riferimento personale, ma il fatto è che uno dei grandi misteri del ciclismo mi riguarda da vicino, nel senso che coinvolge e stravolge la mia piemontesità, e dunque in un certo senso la mia vita.
Allora: il Piemonte ha dato all’Italia il più grande ciclista di ogni tempo, Fausto Coppi, e un altro Campionissimo, Costante Girardengo. Poi ha dato moltissimi altri ciclisti bravissimi, da maglia rosa eccetera. «Ha dato»: si usa il passato prossimo anche se ormai è passato remoto. Ha dato pure grandi calciatori, i massimi o fra i massimi: Ferrari, Rivera, Boniperti... A proposito: non è piemontese Piola, anche se tutti lo considerano vercellese in realtà è nato a Robbio Lomellina, Lombardia. Curiosamente, il meglio del meglio piemontese proviene dalla provincia di Alessandria. In chiave di sport olimpico il Piemonte di Torino ha dato al nostro sport il successo forse più grande, quello di Livio Berruti, oriundo vercellese, sui 200 metri a Roma 1960. Mentre ultimamente è stata Novara e dintorni a conquistare Sydney con gli ori di Fioravanti nuotatore, di Milanoli schermitore, di Bonomi (ossolano) canoista.
Ma torniamo al ciclismo. La terra che fu di Coppi e di Girardengo - e che conserva bene il culto dei due, al punto che Castellania e Novi Ligure sono avviati ad una forte consacrazione turistica nel nome dei due santi Campionissimi - non produce ormai ciclisti non diciamo di alto valore, non diciamo di valore medio, ma di valore decente per il professionismo (Frigo a Biella è soltanto residente, non è un piemontese). Da notare che la provincia di Cuneo, sportiva ed opima, ogni anno si aggiudica traguardi importanti del Giro d’Italia, ogni anno convoca migliaia di cicloturisti nel nome di Coppi. Però ciclisti da prima pagina niente. Già ci è occorso, anche su queste pagine, di far notare come l’hinterland milanese produca molti ciclisti, quello torinese, assai simile, neanche mezzo. E trattasi di zone sorelle come geografia e come benessere.
Eancora: la Brianza è fortemente ciclistica, di vocazioni e di iniziative, mentre il Canavese, che è un po’ la Brianza di Torino, ignora quasi del tutto la bicicletta. Non è un problema piccolo, non è una diatriba paesana. Siamo di fronte ad una diversa, profondamente diversa interpretazione dello sport, o almeno di uno sport (ma Torino non produce neppure calciatori, l’ultimo grosso è stato Bettega, oriundo veneto): sarebbe bello e utile capirne i perchè. Torino ha fatto nascere quasi tutto lo sport italiano, la sua sterilità è storicamente inquietante. E non c’entra la Fiat, la monocultura industriale, automobilistica e non solo: a parte il fatto che ancora pochi anni fa la Fiat era coinvoltissima nello sport, anche di vertice, si deve dire che ormai la sua immanenza nella vita torinese e piemontese si è molto ridotta.
Resta insomma il mistero. Che periodicamente ritorna in mente, e che talora fa pensare che il passato glorioso sia ormai, nel mondo condannato all’avanzata frenetica e continua, una specie di zavorra.
Però poi bisogna spiegare come mai a Varese hanno avuto Binda e continuano a produrre buoni ciclisti, a Bergamo hanno avuto Gimondi e gli hanno dato un buon seguito umano di quasi campioni, in Toscana hanno avuto Bartali e adesso hanno Bartoli. Boh.
Una cosa si deve far notare, a pro del ciclismo che è l’accusato numero 1 di doping, e ultimamente anche doping protervo, sfacciato, perverso, insistito. Il CIO che pure cerca bersagli grossi per la sua crociata, non se l’è mai presa particolarmente con lo sport della bicicletta. Francamente non troviamo una spiegazione. Il CIO non ha mai esitato a criticare certi sport, sino a minacciarli di esclusione dal programma olimpico: il pugilato per i suoi rischi, la scherma per la sua scarsa spettacolarità, il calcio, almeno sino a pochi anni fa, per il suo professionismo eccessivo, sfacciato, esagerato, contagioso. Ma non si è mai pronunciato esplicitamente contro il ciclismo, anche nei periodi di massima intensificazione della caccia alle streghe. Non pensiamo che si tratti di rispetto per la fortissima tradizione storica del ciclismo, di partecipazione al culto della fatica, di solidarietà all’insegna dell’ecologia che la bicicletta coltiva e garantisce. Per la verità, pensiamo che non lo sappiano neppure quelli del CIO.
Anche se il nuovo presidente Jacques Rogge, belga di Gand, sicuramente sa cosa è il ciclismo fiammingo, come può arrivare a connotare tutta una gente, tutta una regione (il suo predecessore il sin troppo santificato Juan Antonio Samaranch, di ciclismo sapeva e voleva sapere poco, pochissimo, forse nulla). Bisognerebbe andare a fondo anche di questa situazione, per capire come virarla in qualcosa di utile al ciclismo stesso.
Qualche timore dovrebbe esistere di svegliare il can che dorme, specie adesso che nei Giochi sono state infilate prove nuove sulla strada e sulla pista - proprio mentre il CIO tentava di imporre la regola della riduzione dei programmi - fra l’altro aprendo ulteriormente al ciclismo anche grazie al triathlon. Ma sapere come mai un consesso di padroni dello sport tesi allo show business moderno, alla spettacolarizzazione massima, non si è ancora scagliato addosso ad uno sport dove grosso modo si procede adesso, nella recita delle prove, come cento anni fa, è cosa interessante, cuoriosa, persino intrigante. Però ora speriamo che nessuno del CIO ci legga e prenda lo spunto per colpire il ciclismo. E che nessun italiota faccia la spia.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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