Rapporti&Relazioni
Sanremo noiosa, Sanremo fantastica
di Gian Paolo Ormezzano

Riflessione molto personale: sto in vari modi dentro al ciclismo dalla fine della stagione 1958, vado da passista verso il mezzo secolo di amore-consuetudine-sodalizio-complicità-lavoro-sopportazione reciproca, e non avevo ancora definito la Milano-Sanremo bene come ha fatto uno che al mio (ahimé, pesante) confronto è quasi un neofita, Gianni Romeo, il quale su La Stampa ha fornito la definizione della corsa, definizione alla quale neppure seguendola alcune volte in motocicletta, e arrivando alla fine pieno di sensazioni e di impressioni, oltre che di pipì di corridori, ero riuscito a pervenire. Dunque si tratterebbe (per me si tratta, decisamente) della più noiosa corsa del mondo per 260 e passa chilometri, della più bella corsa del mondo per la trentina di chilometri conclusivi. Poi si potrebbe fare una ulteriore distinzione, all’interno di questi ultimi chilometri, ma non esageriamo, sennò si finisce alla volata, specie se drammatica a lieto fine, come quella ultima, con la caduta che sembrava un macello ed è invece, per fortuna e per bravura dei ciclisti, diventata una acrobazia quasi innocua.

A proposito: conoscete la tesi per cui un ciclista riporta meno danni se cade mentre va a tutta velocità, perché striscia sul terreno e si frena da solo, al massimo lasciando brandelli di pelle, e invece se cade mentre pedala lentamente, o comunque non velocissimamente, finisce a terra in maniera greve, si insacca in qualche modo sul terreno e (Fausto Coppi a Primolano docet) può patire gravi fratture? È una tesi divertente, interessante, stuzzicante, ma non abbiamo mai osato proporla ai ciclisti.

Torniamo alla Sanremo liofilizzata in una definizione: dal 1960 del Poggio, dal 1982 della Cipressa, la sua caratteristica di corsa quasi sempre noiosa per tanti chilometri e di corsa sempre avvincente nel finale si è perfezionata, confermata, stabilizzata. Naturalmente manca - e noi vecchioni diciamo: «ci manca» - la grande impresa solitaria per tanti chilometri, quella sublimata nel 1946 da Coppi sul Turchino. E non crediamo che, come nel calcio della pallastrada tre corner fanno un rigore, tre Sanremo dal finale meravigliosamente epilettico facciano una Sanremo dalla lunga fuga epica.
L’ideale sarebbe una Sanremo con montagne sempre più difficili fra Piemonte e Liguria, magari ritrovando il Turchino che fa leggenda però deviando poi su una salita supplementare (basta spostare la partenza ancora di più lontana da Milano, la Parigi-Roubaix si chiama felicemente così anche se parte da Compiégne, che da Parigi dista un viaggio), e con selezione quasi automatica accompagnata dal solito splendido finale epilettico. Tanto ormai ci si accosta alla corsa con - vedi Zabel - nelle gambe qualcosa come 18.000 chilometri fra allenamenti e gare, la durezza e la distanza non sono più il problema di una volta.

Comunque una corsa che sopporta senza i cosiddetti danni d’immagine quattro Zabel in cinque anni, cioè quattro volte lo stesso sprinter, e non di quelli da leggenda del ciclismo mondiale, è una grandissima corsa di per se stessa. Forse proprio per questa grandezza assoluta sopporta il bla-bla-bla del nostro teorizzare, del nostro volere che, del nostro aspettare il.

dddddd

Ho detto di come e quanto (e dovrei anche dire quando, ma si tratta di escursione fisiologicamente triste nella mia gioventù) i ciclisti, tantissimi e raggruppati quasi sempre, di una Milano-Sanremo coprono il motociclista, quale che sia, anche della loro urina, polverizzata, aerosolizzata, atomizzata. Naturalmente è più comodo seguirla in auto. Però una volta, seguendo una corsa ciclistica in auto, anzichè di urina mi sono sentito ricoperto, mi si passi il termine, di cacca.

Fu nei primi anni ottanta, alla fine di un Giro d’Italia venne indetta a pochi giorni dalla fine della corsa rosa la Gran Fondo da Milano a Roma, 600 e passa chilometri per reduci e sopravvissuti e naufraghi assortiti. Un tentativo di resuscitare un certo antico ciclismo fachiresco, partenza di sera, in programma tante ore di corsa, sino al pomeriggio successivo. Ricordo che con la nostra auto agganciammo il gruppo dei primi, dopo una notte vagabonda, in quel di Fossombrone, posto di salite appenniniche neanche troppo comode. Avevo un amico speciale fra i corridori, si chiamava Wladimiro Panizza, c’era feeling, simpatia reciproca, amicizia. Lo vidi stranito nell’alba marchigiana, passandogli accanto gli dissi: «Aveva ragione tuo padre a volerti ragioniere impiegato in banca, se tu potessi guardarti lo capiresti». Mi disse soltanto: «Tieniti lontano da me, se ti prendo ti strozzo». Capii che avevo esagerato, io reduce da una discreta dormita sui sedili soffici della vettura. Per fortuna lui rimase ancora un po’ nel ciclismo, da gran vecchio, e feci in tempo a farmi perdonare.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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