Gatti & Misfatti
Allunghiamo il Giro

di Cristiano Gatti

Secondo me non ab­bia­mo mandato abbastanza a quel paese, comunque non in un paese abbastanza remoto, il signor presidente dell’Uci, suo francesismo David Lappartient. Questo mese di Giro d’Italia mi sembra occasione ideale e imperdibile per saldare il deficit, almeno da parte mia. Gu­standomi la mia adorata corsa rosa, lo mando amabilmente al diavolo con passione ancora più focosa.

Non è il solito sbocco che ormai prende chiunque contro qualunque forma di potere e di carica istituzionale. A prescindere. Da questo punto di vi­sta, confesso che questo nuo­vo presidente non mi sembrava nemmeno male. Poi è arrivata la sua uscita, la sua ideona geniale, e allora su questa circostanza specifica mi si è chiusa la vena. Parlo naturalmente dell’intenzione, peraltro tutto fuorchè nuova, di ac­corciare Giro e Vuelta.

Non sto neppure a prendere in considerazione tutto il contorno che il Monsieur mette sul vassoio della portata, quella serie di motivi e di van­taggi che inducono a scendere di una settimana nel programma di queste due storiche corse. Proprio non me ne può importare di meno, dei vantaggi e delle virtù di questa scelta. Anche perché non mi convincono. Neanche le vedo. Non ho bisogno di essere convinto. Tra le poche certezze che mi restano, una del­le prime è questa: con tutto quello che c’è da fare, da cambiare, da migliorare, proprio non esiste motivo di mettere mano alle poche cose che funzionano. Vale in politica, vale in casa mia, vale sempre. Tan­to più vale davanti al mito in­tangibile dei grandi giri, parlando di sport.

Il problema è che qui or­mai chiunque si sente in diritto di dare un segno della propria esistenza, della propria presenza, della propria vanità. L’ultimo che arriva si sveglia una mattina e spara la sua linea programmatica. Mi vengono in mente quei genialoidi che un giorno ci spiegarono, con tanto di uf­fici marketing messi alla frusta, di come fosse ormai da vecchi deficienti tenere ancora la Sanremo di sabato. Come si fa a non vedere questo anacronismo, ci spiegarono dall’alto in basso. Come si fa a continuare pervicacemente in questo vecchiume. Basta, en­triamo nella modernità: San­re­mo di domenica. Non starò qui adesso a infierire sull’amato pubblico ricordando com’è finita la storia. Resta il fatto che la Sanremo è di nuo­vo al sabato e ci sta benone, sempre più bella e sempre più prestigiosa.

Questa di Giro e Vuel­ta ristretti, come il caffè, come il bucato sbagliato, è uguale: ogni tre per due salta su un tizio che ti spiega quanto siano anacronistiche tre settimane, quanto sia più salutare e avvincente la corsa a tappe mignon, come se non esistessero già la Tir­re­no, la Parigi-Nizza, il Del­fi­nato per appagare queste smanie di sintesi. Poche chiacchiere: considero la lunga narrazione dei grandi giri di vitale importanza per il ciclismo. Non per il suo passato: per il suo futuro. Se lo spettacolo della bici ha ancora un senso, questo senso va cercato nella fatica e nell’epica, uniche e inimitabili. Opinione personale: il giorno che aboliamo la fatica con le bici elettriche, con i giri corti, con le tappe brevi, con le salite ridotte, con le gare annullate per il caldo o per il freddo, il ciclismo fa la fine dei pantaloni sotto l’ombelico: muore come una moda insulsa. Se fosse per me, io il Giro lo allungherei a un mese. A due mesi. Non lo farei finire mai. È una battuta, ma per dire che non mi stufa mai, che quando finisce mi prende una malinconia dannata. Per tre giorni mi sen­to disadattato come un or­fano.

Lunga vita ai lunghi gi­ri, altro che accorciare. E al signor presidente consiglio vivamente di dedicarsi e di spendersi verso cause più urgenti. Questa, che ha molto l’aria di voler rendere il Tour ancora più unico e più inarrivabile, se la tenga per una seconda vita. E magari neppure per quella. Se il Gi­ro e la Vuelta così come so­no da un secolo non gli vanno più bene, provi con il golf. O con l’ippica, che mi sembra il suo ambiente.
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