Editoriale
Ho letto un brutto libro, capita. L’ho letto fino in fondo, caspita. Ma anche e soprattutto per vedere fino a che punto si può arrivare. Il titolo è la cosa più bella: «Confessioni di un ciclista mascherato», di Antoine Vayer. Il sottotitolo tutto un programma: «Per la prima volta un ciclista in attività racconta tutta la verità». Basta e avanza per prenderlo dallo scaffale, pagarlo e sedersi in poltrona per darsi alla lettura. Una volta cominciato si percepisce immediatamente che siamo di fronte ad un prodotto povero, che non aggiunge nulla alla narrazione molto dark e pulp del doping nel ciclismo. Una serie impressionante di copia e incolla, di storie già scritte e quindi lette e rilette, una sorta di gigantesco bigino dell’ovvio: autentica fuffa.

GIANO BIFRONTE. Il ciclista mascherato sarebbe ancora in attività. Ha preso parte alle principali corse a tappe, dal Giro al Tour passando per la Vuelta. Ha corso classiche e mondiali, comprese le Olimpiadi. È un atleta di buon livello, anche se “radio gruppo” fa sapere che nella sostanza alle spalle di Vayer non ci sarebbe un corridore, ma potrebbero essercene perlomeno due: una sorta di Giano bifronte. L’impressione che mi ha dato, visto le ovvietà scritte, è che Vayer, allenatore della Festina dal 1995 al 1998 prima, e commentatore di Le Monde e Libération dopo, considerato come uno dei più grandi esperti e conoscitori di cose di doping, questo lavoro potrebbe averlo fatto senza ricorrere all’ausilio di nessuno. Semplicemente ha raccontato quello che già è stato raccontato in questi anni. Quello che lui ha fatto e imparato negli anni. Un insieme impressionante di discorsi da bar e luoghi comuni, messi nero su bianco.

TUTTI A PEZZI. Ne esce un affresco doloroso e ingombrante, a tratti anche fastidioso. Non si salva nessuno, o almeno in pochissimi. Armstrong, Ullrich, Riis, Riccò, Di Luca e via elencando. Nomi e cognomi di corridori rimasti in questi anni impigliati nella rete del doping. Si fa prima a dire chi risparmia: Cadel Evans, Marcel Kittel e John Degenkolb, per fare qualche nome. Per il resto sono solo schiaffi. Al ciclismo francese, arrogante e corrotto. All’Uci, che ha protetto uno degli hold-up principali, Lance Armstrong. E poi ne ha per il ciclismo italiano, per quello spagnolo, olandese e belga, per quello britannico, con la Sky in testa e Bradley Wiggins e Chris Froome sul banco degli imputati che ne escono a pezzi. Non perché Vayer aggiunga qualcosa alla narrazione del ciclismo che batte union jack, ma perché riscrive ciò che è già stato scritto a più riprese. Come la storia di tutte le malattie che il sudafricano bianco avrebbe affrontato, prima di diventare qualcuno. A tale proposito risuonano ben più di un’accusa le parole di Greg Lemond: «Se Froome avesse un simile talento e un motore fisico così prodigioso, lo si sarebbe saputo fin dalla sua più giovane età, non così tardi».
Si parla di Michele Ferrari, di sostanze e cure, di farmaci psicotropi e Gh, di microdosi e di Tramadol: nulla di cui, purtroppo, non si conosca la storia e l’esistenza. Un libro povero e tradotto ancora peggio, da chi il ciclismo chiaramente nemmeno sa cosa sia.

UNO NESSUNO CENTOMILA. Non si sa chi sia questo corridore, forse due, o forse nessuno. Però esorto il mondo del ciclismo a denunciare Vayer. Sono in tanti a poterlo fare, per la leggerezza con la quale nomina e giudica tutto e tutti senza portare uno straccio di prova, se non per coloro i quali - la maggior parte, in verità - sono stati già giudicati. L’associazione mondiale dei gruppi sportivi, dei corridori, degli organizzatori, i tanti team manager menzionati con assoluta leggerezza, hanno tutti a disposizione un calcio di rigore da tirare. Sarebbe l’unico modo per portare allo scoperto il corridore mascherato, se c’è. Per mettere spalle al muro Vayer, e comprendere in questo modo se le sue storie ricostruite con approssimazione e superficialità hanno un fondamento oppure no. Diversamente un libro brutto diventerebbe quantomeno vero. E non sarebbe bello.

Pier Augusto Stagi
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