Rapporti&Relazioni
Con Cairo è Giro-rivoluzione

di Gian Paolo Ormezzano

Urbano Cairo ha fatto sa­pere che il Giro d’I­talia fattura una quinto del Tour de France, e allora via Rcs, sigla proprietaria an­che della corsa, sigla di cui lui è proprietario, ha cominciato a ridurre il gap, inserendo ad esempio pubblicità di tipo nuovo (avrete notato che, nel­la presentazione della tappa rosa del giorno dopo, l’esperto quando non parlava pedalando stava alla scrivania e sorseggiava regolarmente e visibilmente il thè freddo, estivo di una certa marca legata da tem­po al ciclismo). Cairo nasce come uomo della pubblicità e anche della televisione di stam­po berlusconiano (contattò un giovane Piero Chiam­bretti, guarda un po’ gran tifoso del Toro ora club di Cairo), nonché come editore e anche creatore di tanta stampa periodica popolare: sue tantissime riviste fatte con fotografie di­cia­mo sensazionalistiche del jet-set e intriganti diciture che diventano articoli, produzione ottima se si tiene conto che non si tratta di roba per accademici della Crusca, con direttori pagati più dei migliori calciatori del Torino, società di calcio dal passato glorioso di cui lui è diventato presidente-proprietario su input dei genitori tifosissimi granata, specie la mamma ora scomparsa.

Ma Cairo è soprattutto da qualche mese il presidente della Rcs, sigla gloriosa e quasi omnicomprensiva che vuol dire Corriere della Sera ma anche Gazzetta dello Sport e tanti tantissimi libri di vasto successo e appunto Giro d’Italia e altre manifestazioni sportive.
È fortemente nonché facilmente presumibile che Cairo cambierà la corsa rosa, persino più di quanto abbia cambiato il Torino calcio, dove comunque sta facendo ottimi affari e la cui stanza dei bottoni è in pratica trasferita nei suoi uffici di Milano (senza però riuscire del tutto a sottrarre il Toro dal­la concreta (leggi successi) do­minazione bianconera, pe­raltro più forte fuori Torino che sotto la Mole,dove il mantra “Torino è stata e resterà granata” tiene ancora.
Il direttore generale della Cai­ro Communication si chiama Giuseppe Ferrauto ed è ciclofilo attento ed appassionato. Siccome - quasi quasi ce ne dimenticavamo – Cairo è anche l’uomo di La 7, la sua emittente televisiva non grande quanto ad ascolti ma di for­te impatto per la semplice ra­gione che è brillante e agile e intelligente, è pensabile che l’operazione vita nuova del Gi­ro si realizzerà soprattutto in pollici, sul piccolo schermo.

Urbano Cairo è di famiglia alessandrina, si ascrive o si lascia - com­piaciuto - ascrivere alla gente mandrogna, speciale an­corchè numericamente ristretta stirpe mitico/mistica di ladri di donne e cavalli, ma soprattutto di mercanti capaci, sapienti persino più che avidi, concentrati in un piccolo territorio. La sudditanza del Giro d’Italia rispetto al Tour de Fran­ce, da noi frantumata ne­gli anni cinquanta e sessanta ma poi ripristinata e anzi ac­centuata per un sacco di ragioni, è destinata a sparire o a ridursi decisamente.

Un’avvisaglia interessante ancorché indiretta: l’edizione del Giro ap­pena finita, la staticamente im­portante e stimolante corsa ro­sa numero 100, ha visto un so­lo successo di tappa italiano, quello per pochi centimetri in volata di Nibali poi terzo alla fine della prova tutta, e in Ita­lia non solo non c’è stato scandalo, ma il fatto è stato ascritto, inconsciamente o no dai ci­clofili numerosissimi sulle stra­de della nostra sagra, alla nuova ecumenicità del ciclismo tutto, sport adesso da do­dici mesi l’anno di gare, sport di gente dei cinque continenti, insomma un ciclismo parente ormai alla lontana del ciclismo da villaggio italo-franco-belga, con un pochino di Spagna, Olanda, Germania e Svizzera alle frontiere, al quale eravamo abituati e nel quale ci sia­mo trovati sin troppo bene per anni.

Ne ho già scritto qui, di­fendendo il nuovo ci­clismo mondializzato dagli scetticismi dei laudatori soltanto del tempo passato, guarda un po’ il loro tempo, quello delle corse dalla geografia limitata e con praticabilità delle strade di otto mesi l’anno, corse che a pensarci be­ne erano poco più che il gi­ro del nostro beneamato paesello, con epicentro il campanile. Ma Cairo mi fa pensare al Giro nuovo in maniera forte e curiosa e ottimistica. Proprio lui che non mi ha mai fatto pensare ad un Torino, il mio Toro, reso straforte dalla sua presidenza. Non posso proprio dire se ritengo il ciclismo maggiormente da lui e dai suoi plasmabile in chiave moderna, o se ritengo il mio Toro troppo sacro per essere toccato assai dall’ormai dominante mondo pratico degli affari. So anzi sento, avverto, pavento che continuerò a soffrire la Juventus, così forte e ricca e al­tera, e però so che non pa­ti­rò più il Tour de France come lo patisco adesso: io, innamorato della Francia del Tour e dei vini e di Edith Piaf tanto quanto non lo sono del francese tipico affetto da grandeur buttata addosso agli altri.
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