Urbano Cairo ha fatto sapere che il Giro d’Italia fattura una quinto del Tour de France, e allora via Rcs, sigla proprietaria anche della corsa, sigla di cui lui è proprietario, ha cominciato a ridurre il gap, inserendo ad esempio pubblicità di tipo nuovo (avrete notato che, nella presentazione della tappa rosa del giorno dopo, l’esperto quando non parlava pedalando stava alla scrivania e sorseggiava regolarmente e visibilmente il thè freddo, estivo di una certa marca legata da tempo al ciclismo). Cairo nasce come uomo della pubblicità e anche della televisione di stampo berlusconiano (contattò un giovane Piero Chiambretti, guarda un po’ gran tifoso del Toro ora club di Cairo), nonché come editore e anche creatore di tanta stampa periodica popolare: sue tantissime riviste fatte con fotografie diciamo sensazionalistiche del jet-set e intriganti diciture che diventano articoli, produzione ottima se si tiene conto che non si tratta di roba per accademici della Crusca, con direttori pagati più dei migliori calciatori del Torino, società di calcio dal passato glorioso di cui lui è diventato presidente-proprietario su input dei genitori tifosissimi granata, specie la mamma ora scomparsa.
Ma Cairo è soprattutto da qualche mese il presidente della Rcs, sigla gloriosa e quasi omnicomprensiva che vuol dire Corriere della Sera ma anche Gazzetta dello Sport e tanti tantissimi libri di vasto successo e appunto Giro d’Italia e altre manifestazioni sportive.
È fortemente nonché facilmente presumibile che Cairo cambierà la corsa rosa, persino più di quanto abbia cambiato il Torino calcio, dove comunque sta facendo ottimi affari e la cui stanza dei bottoni è in pratica trasferita nei suoi uffici di Milano (senza però riuscire del tutto a sottrarre il Toro dalla concreta (leggi successi) dominazione bianconera, peraltro più forte fuori Torino che sotto la Mole,dove il mantra “Torino è stata e resterà granata” tiene ancora.
Il direttore generale della Cairo Communication si chiama Giuseppe Ferrauto ed è ciclofilo attento ed appassionato. Siccome - quasi quasi ce ne dimenticavamo – Cairo è anche l’uomo di La 7, la sua emittente televisiva non grande quanto ad ascolti ma di forte impatto per la semplice ragione che è brillante e agile e intelligente, è pensabile che l’operazione vita nuova del Giro si realizzerà soprattutto in pollici, sul piccolo schermo.
Urbano Cairo è di famiglia alessandrina, si ascrive o si lascia - compiaciuto - ascrivere alla gente mandrogna, speciale ancorchè numericamente ristretta stirpe mitico/mistica di ladri di donne e cavalli, ma soprattutto di mercanti capaci, sapienti persino più che avidi, concentrati in un piccolo territorio. La sudditanza del Giro d’Italia rispetto al Tour de France, da noi frantumata negli anni cinquanta e sessanta ma poi ripristinata e anzi accentuata per un sacco di ragioni, è destinata a sparire o a ridursi decisamente.
Un’avvisaglia interessante ancorché indiretta: l’edizione del Giro appena finita, la staticamente importante e stimolante corsa rosa numero 100, ha visto un solo successo di tappa italiano, quello per pochi centimetri in volata di Nibali poi terzo alla fine della prova tutta, e in Italia non solo non c’è stato scandalo, ma il fatto è stato ascritto, inconsciamente o no dai ciclofili numerosissimi sulle strade della nostra sagra, alla nuova ecumenicità del ciclismo tutto, sport adesso da dodici mesi l’anno di gare, sport di gente dei cinque continenti, insomma un ciclismo parente ormai alla lontana del ciclismo da villaggio italo-franco-belga, con un pochino di Spagna, Olanda, Germania e Svizzera alle frontiere, al quale eravamo abituati e nel quale ci siamo trovati sin troppo bene per anni.
Ne ho già scritto qui, difendendo il nuovo ciclismo mondializzato dagli scetticismi dei laudatori soltanto del tempo passato, guarda un po’ il loro tempo, quello delle corse dalla geografia limitata e con praticabilità delle strade di otto mesi l’anno, corse che a pensarci bene erano poco più che il giro del nostro beneamato paesello, con epicentro il campanile. Ma Cairo mi fa pensare al Giro nuovo in maniera forte e curiosa e ottimistica. Proprio lui che non mi ha mai fatto pensare ad un Torino, il mio Toro, reso straforte dalla sua presidenza. Non posso proprio dire se ritengo il ciclismo maggiormente da lui e dai suoi plasmabile in chiave moderna, o se ritengo il mio Toro troppo sacro per essere toccato assai dall’ormai dominante mondo pratico degli affari. So anzi sento, avverto, pavento che continuerò a soffrire la Juventus, così forte e ricca e altera, e però so che non patirò più il Tour de France come lo patisco adesso: io, innamorato della Francia del Tour e dei vini e di Edith Piaf tanto quanto non lo sono del francese tipico affetto da grandeur buttata addosso agli altri.
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