A fine settembre la Rai ha radunato alcuni vecchi amici di Gianni Brera (quorum ego, così avrebbe latineggiato lui per dire della sua partecipazione). Entrati nel venticinquesimo dalla sua fine tragica in un incidente stradale, ci siamo trovati (iniziativa di Rai Storia, per farci su una teletrasmissione) in un ristorante a pochi chilometri dalla capitale del mondo secondo Gianni, cioè Pavia. Mangiando il cibo che lui amava, lo abbiamo ricordato conversando, cosa che a lui sarebbe piaciuta assai anche se ci avrebbe detto che eravamo dei cretini a perdere il tempo così. Mancava quello che forse gli fu giornalisticamente più vicino, Mario Fossati, scomparso tre anni fa.
Non intendo, proprio perché privilegiato dalla scelta della Rai, anticipare la trasmissione. Gianni Brera qui mi serve per dire di cosa era, di come era, di quanto di grande e grosso era una volta il giornalista sportivo. Storicamente l’omaggio della Rai è normale, giusto, logico. Forse meno logici sono i miei sospiri, perché rischio, come tanti vecchiacci, di voler impreziosire a tutti i costi il tempo che fu, il mio tempo, sapendo che adesso non se ne può vivere uno simile, e implicitamente decidendo che quelli attuali sono tempi brutti, avari, tristi (mentre sono semplicemente diversi, senza coltivare la presunzione di una graduatoria).
Brera mi serve, ripeto, per evocare il giornalismo sportivo d’antan, con la certezza che non torna più e con il vago timore che questo non sia un bene. Poi per me Brera è soprattutto il ciclismo, Giro e Tour, e siccome a Torino il giorno della Milano-Torino che è la più vecchia corsa italiana, nonché quella di data della prima edizione fa le più antiche al mondo (era la vigilia del viaggio/pellegrinaggio nel Pavese), ho stentato a trovare tracce dell’evento sulla stampa cittadina, mi sembra giusto omaggiare, del passato anche breriano, momenti che più sanno di nostalgia e perché no anche di debito verso uno sport.
Dunque al Tour de France Mario Fossati diceva a chi sapeva sodale vero di Gianni: “Fra tre giorni arriva lui, seguirà qualche tappa”. Sapeva che immediata era la prenotazione di un posto al tavolo dove Lui avrebbe consumato la prima cena francese. Brera era stato corrispondente a Parigi di un quotidiano sportivo quando Parigi era la capitale del mondo, anche di quello dello sport, parlava benissimo la lingua di Molière, omaggiava la grandeur francese però aveva punte di sarcasmo, di critica molto sue, interessantissime. E sapeva di cibi preziosi, di vini speciali. Così era bello e anche utile, dopo avere festeggiato il suo arrivo, stare a sentirlo, e pazienza se poi alla fine dovevi bere cognac anziché whisky, e berlo quasi caldo, sorseggiando a parte acqua di fonte indispensabile per le papille gustative, diceva lui.
La cena con Brera era comunque la sintesi della sacralità di un certo giornalismo al quale avevo avuto accesso alla fine degli anni cinquanta, con le mie prime grandi corse ciclistiche, lui dominante imperante sentenziante criticante. Potrei scrivere un libro, e per la verità qualcosa ho già scritto e sinanco pubblicato, su un sodalizio che confinò con l’amicizia grossa, che ebbe date intense anche se sparpagliate nel tempo, con mio uso anche personalissimo di questo rapporto, intensificatosi da quando io, scritto all’università, fui da lui convinto a passare dalla facoltà di giurisprudenza di Torino a quella della sua Pavia, dove bastava il suo nome a mettere tutti sull’attenti e dove persino rischiai di laurearmi.
Tanto Brera, sì, ma anche tanto giornalismo imponente, sacerdotale di allora, con i vecchi maestri che magari vedevano poco dell’evento ma ne scrivevano molto, e non tutti con la sua eccezionale valentia di scrittore, anzi. Però gente che sentiva lo sport e il giornalismo, e te li faceva sentire eccome. Pazienza se emettevano troppi dogmi, i loro dogmi, però lo facevano con classe. E fra di loro scoppiavano, per iscritto e non solo, polemiche furibonde, con anche scontri fisici. Oggi quasi tutti sono, siamo appiattiti dalla comoda rapida popolarità pure televisiva, e spesso sembra che a scrivere noi si deleghi il nostro io diciamo meno forte e intenso...
Un giornalismo che magari non rispettava sempre il congiuntivo ma che in buona fede proponeva e pubblicizzava miti validi, seri, un giornalismo forte e chiaro, e pazienza se spesso troppo solenne, togato. Direi che l’ultimo dei santoni è stato, a livello alto, Giorgio Tosatti, scrittura più televisione, che sapeva di recitare però recitava bene, in buona fede e con totale impegno come tutti i santoni a cui si era, ragazzo di redazione accanto a me, ispirato. Tosatti anche a tavola è stato sempre un poco Brera. Ma detto di Tosatti devo dire anche di Gianni Mura, un amico, un onesto, un esperto di sport come di cibi e di vini, in breve un grande giornalista che mi sgrida se legge queste mie cose su di lui.
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