Rapporti&Relazioni
I miei grandi maestri di giornalciclismo

di Gian Paolo Ormezzano

Seguo il ciclismo da che ho undici anni: nel 1946 mio padre mi portò a vedere una riunione su pista, o forse era­no i campionati italiani, al Mo­to­ve­lodromo di Torino, e ricordo che nell’inseguimento un poco più che giovanotto, un certo Coppi, fe­ce penare il più valutato Ortelli. Non so se prima o dopo quella riu­nione su pista, comunque in quell’anno, mio padre mi portò su una strada dell’hinterland torinese, a veder passare il Giro d’Italia, pri­ma tappa classica, quasi rituale, la Milano-Torino. Era il 15 giugno (sono andato a controllare), vinse Giordano Cottur, triestino dunque di una città amatissima dagli italiani.

Scoprii che mio padre mica era andato sulla strada per vedere il Giro, o almeno che il motivo nu­me­ro 1 era un altro: salutare un ce­lebre giornalista suo amico. Scorse l’auto da lontano, portava enormi targhe di riconoscimento, papà si portò sulla strada e urlò un “ciao Raro!” ricambiato davvero al volo da un “ciao Ezio!”. Raro, cioè Rug­gero Radice, su Tuttosport firmava per esteso, su La Gazzetta del Po­polo, che allora concorrenziava eccome La Stampa, usava Raro, da Ra-dice Ro-ger. Massì, Roger alla francese perché era nato in Pro­venza, a Salon, il paese di No­stra­damus. Mio padre mi disse, credo proprio in quell’occasione, che conosceva anche un altro giornalista famoso, però si occupava di calcio, si chiamava Vittorio Pozzo, scriveva su La Stampa, tifava Toro come noi due e faceva il commissario tecnico della Nazionale.

Raro e Pozzo sono tornati nella mia vita di lavoro, il primo come compagno di tante avventure ciclistiche, su tutte il primo mio Tour, anno 1960 e Nencini in maglia gialla a Parigi, stessa auto e lui che mi presentava a mezza Francia, il secondo soprattutto in occasione dei Giochi olimpici di Tokio 1964, quando mi si affidò perché lo portassi alle prove del ciclismo, ogni tanto ricordandomi cose di mio padre che da sette anni non c’era più. Con Raro ho spartito davvero tanta vita, fra noi c’è sempre stato un grande affetto nonostante lo spazio anagrafico di anni, una del­le foto più belle di quell’uomo brutto che sono io è quella scattatami quando, a Castellania, lo celebro ai cosiddetti astanti, fra i quali ovviamente i figli di Coppi, in oc­casione dell’inaugurazione di una via dedicata a lui. La targa stradale recita: “Via Ruggero Radice -“Ra­ro” - Amico di Fausto e Serse - Gior­nalista”.

Ma ho conosciuto, frequentato, accompagnato sul lavoro, persino “passato” (si dice così non solo degli articoli che il redattore controlla prima di mandare alle stampe, ma anche dei loro autori) giornalisti diciamo pure storici, giornalisti dei tempi eroici. Su tutti direi Giuseppe Ambrosini, che all’occaso di una vita tutta per la bici seguì un paio di Giri d’Italia per Tutto­sport.
Lo ricordo dedito ad una divinità, la Media. “Avvocato (lui il primo Avvocato dello sport, mica Gianni Agnelli) - gli dicevo -, ma se i corridori hanno speso tempo per superare un dinosauro che ostruisce la strada e la media è bas­sa, lei li bolla egualmente?”. E lui a dirmi che alla fine la Media non mente mai. Amava il giornalismo scientifico, misurava agli atleti, arti e torace, e si basava abbastanza su ciò per giudizi e pronostici. Era un giornalista preciso, perfetto, di cristallo.

Ho anche co­nosciuto Bru­no Roghi, gran musicologo, accompagnava tutto il ci­clismo che vedeva e di cui scriveva canticchiando arie celebri, era scan­dalizzato dalla mia ignoranza musicale assoluta. Mi diede una lezione di umiltà quando, mio di­rettore per pochi mesi a Tutto­sport, dovette scrivere in anticipo su una finale mondiale dello sprint fra due italiani, programmata ad un’ora avanzatissima nella sera, e di cui il giornale avrebbe potuto al massimo ospitare l’esito, non il racconto. Un articolo per un finalista, un articolo per l’altro, “e pubblicate quello su chi vince, sono di lunghezza eguale”.
Sono stato diciamo allievo prediletto di Carlo Ber­go­glio detto Car­lin, gran giornalista ma anche pictor optimus, piemontesardo. Fu lui nel 1959 ad aprirmi il Giro d’I­ta­lia, con una sorta di lascito: aveva annunciato in redazione che mi avrebbe portato con sè, morì il 25 aprile, le sue parole fecero legge. Lui andava alle corse soprattutto per individuare dove era, come pe­dalava, come stava Nino Defilip­pis, il suo figlio in bici, da lui battezzato Cit, piccolo in piemontese. Carlin era integerrimo, imparzialissimo, tifava Bartali e Juventus e sapeva che io tifavo Coppi e To­rino e mai mi chiese, pur avendolo io frequentato stretto per anni, per chi ero: perché se gli avessi detto di tifare come lui mi avrebbe pensato bugiardo e ruffiano, se gli avessi detto il vero (che lui conosceva, credo) avrebbe dovuto spiegarmi che sbagliavo tutto, e forse non ne era così certo… Glissai ga­glioffamente, ricordo.
Potrei scrivere un libro su questi giornalisti, compreso Emilio De Martino, popolarissimo, che al mio primo Giro io salutavo ogni mattina, “buona tappa direttore”, e lui “grazie caro, ti leggo”, e manco sapeva chi ero, ma era gentile, educato. Forse scriverò un altro articolo, e nessuno poi dica di non essere stato avvertito.
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