Se non altro, fino a qualche tempo fa si avvertiva nell’aria una sana indignazione, un giusto senso di ribellione, una feroce polemica a fin di bene. Niente, non c’è più niente di tutto questo: il Giro non si chiuderà a Milano, ma non c’è in Giro un cane che abbia ancora voglia di eccepire. Passa via come se niente fosse. Silenzio, indifferenza, rassegnazione.
Non sono questi gli scandali, lo sappiamo bene. Tuttavia. Ormai il rapporto affettivo tra città natale e corsa rosa è definitivamente compromesso. Come in un matrimonio esaurito, i due non si sopportano più. Cercano altrove le proprie passioni e le proprie soddisfazioni. Il Giro sceglie di chiudere a Brescia, stavolta a Trieste, magari un giorno a Vienna o Bruxelles. Milano, in quello stesso primo giugno, quest’anno si scatenerà in piazza Duomo con un megaconcerto di artisti italiani, come a dire che morto un papa se ne fa subito un altro, se non è il ciclismo rosa a riempire la magnifica piazza sarà comunque qualcun altro, magari più trendy e più rock. Milano non ha più bisogno del Giro, il Giro non ha più bisogno di Milano. Tanti saluti e nemici come prima.
Personalmente, non mi piace però che la faccenda finisca nel silenzio. Se la situazione è questa, togliamoci almeno il gusto di riflettere e commentare. Prima cosa: sarò vecchio e nostalgico, coservatore e trinariciuto, ma a me l’idea di chiudere sempre, immancabilmente, nei secoli dei secoli allo stesso modo, alla stessa ora, nello stesso luogo, piace un sacco. Viviamo nella società del cambiamento e della velocità, ma proprio per questo i pochi riti che sopravvivono diventano ancora più preziosi. Che il Tour finisca sui Campi Elisi, con inni e fanfare, presidenti e bandiere, è una cosa tremendamente bella. La stessa Vuelta, che guardiamo dall’alto in basso, si sforza comunque di finire sempre a Madrid. Noi no, noi non diamo peso ai riti e alla tradizione. Guardiamo solo a chi offre di più. Non è un criterio da buttare, sia chiaro, ma almeno non pretendiamo di farlo ugualmente bello. Spostarsi ogni volta avrà il suo fascino e il suo fatturato, ma toglie poesia e mito a una giornata particolare. Pensa soltanto per ipotesi se il Giro terminasse sempre, sin dalla sua nascita, lungo i Fori Imperiali di Roma, nella capitale d’Italia, tra le pietre più rare e più gloriose del mondo. Pensa l’evento. Mi dicono: a Roma e ai romani non importa nulla del ciclismo. E poi il Giro è nato a Milano. Benone: ottima anche la conclusione fissa in piazza Duomo. Ma sempre, immancabilmente, eternamente. Invece buttiamo anche questa storia nel tritacarne. Perché Milano non ci vuole più, dicono nella stanza dei bottoni. E va bene, però parliamone.
Su Milano città, gente, amministrazione comunale, c’è davvero poco da aggiungere: il ciclismo è vissuto come una gran rottura di scatole. Una giornata di fastidi metropolitani. Che i ciclisti vadano a farsi un Giro altrove. Girino alla larga. Ma la cosa che mi diverte di più, in senso amarissimo, è notare come la stessa città, la stessa gente, la stessa amministrazione comunale vadano in brodo di giuggiole per altre giornate di analoghi fastidi, per esempio per la giornata della maratona, nuova moda per sportivi chic, e pazienza se la maratona fa un gran male al sistema cardiovascolare. Di più. C’è un paradosso ancora più incredibile: a creare questa nuova passione milanese è proprio la stessa organizzazione del Giro, quella Rcs che da una parte si lascia prendere a pesci in faccia per la gloriosa gara nazionale della bicicletta, mentre dall’altra si presta di buon grado alla feconda collaborazione per la promozione e la valorizzazione della maratona meneghina. Business is business, dicono in America (ma anche a Tripoli e a Pechino): però c’è un limite. Dovrebbe esserci.
E allora sai che ti dico? Stando così le cose, è con profondo dispiacere e con cupa malinconia che arrivo alla più penosa delle conclusioni: se il Giro non interessa più a Milano (e passi), se il Giro assurdamente interessa ancora meno a chi lo organizza, a chi dovrebbe fare qualunque cosa per tenerlo sul piedestallo, se cioè Rcs non è più innamorata della sua creatura, decidiamoci: vendiamo il Giro ai francesi. Vendiamolo al Tour, vendiamolo a chi saprebbe bene come maneggiarlo. Così hanno fatto gli spagnoli, così dovremmo fare noi. Investimenti e fantasia, organizzazione ed entusiasmo: tornerebbero in rosa queste quattro componenti perse irrimediabilmente per strada.
Lo riconosco apertamente: la sola idea di sottomissione ai francesi mi deprime molto, ma ci sono momenti in cui l’amputazione è meglio di un’aspirina. Fa molto male, è una cosa enorme, ma salva la vita. E il Giro va salvato. Se non sappiamo salvarlo noi, deve salvarlo qualcuno più bravo di noi.
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