Pensavamo in questi giorni a come diversamente si attendesse, dalle parti nostre, il disegno del Giro d’Italia prossimo, in confronto a quello dell’anno scorso. Riflettevamo su quanta richiesta surplus di attenzione, ci fosse stata in giro - Napoli Campania media ed accoliti, per il 2013 - ed a quanto assordante silenzio, invece, induceva senza eco alcuna il percorso del Giro 2014. L’Irlanda, un genetliaco per Bartali, dieci anni da Pantani, Zoncolan ed altre astrusità, un percorso da ostrogoti per il “razzismo” all’incontrario dei meridionali: e per noi attivo solo il traguardo di Montecassino. Certo, tre frazioni, e di apertura, nel 2013, al cospetto di uno “0” rotondo di presenza l’anno dopo, può apparire sinistramente stridente, ma può fare altresì parte di una oggettiva logica di razionalizzazione di spese e interessi, di costi e acquisti, di investimenti e di ritorni...
Nulla da dire, se tutto fosse inserito in un progetto, ovvio, semmai in lettura ciclistica: ma non sta a noi enfatizzare questo conseguente risvolto critico. La considerazione che maggiormente ci intrigava, però, restava un’altra. Ed era l’osservazione, questa sì doverosa, di come una manifestazione eccezionale come il Giro, accolta con festa straordinaria e tripudio popolare in tre giornate di maggio 2013 in Campania - Napoli Ischia Sorrento Ascea -, non avesse generato alcun frutto, alcuna seminagione positiva per l’anno venturo. Via il Giro 2013, via il ciclismo, via l’interesse di tutti. Un colpo di tergicristallo, e via. Passato il Giro, non se ne fa un altro. To be or not to be. Possibile, ci chiedevamo, che il ciclismo, se non a bordo del salvacondotto, se non del contenitore ‘Giro’, sia diventato siffatto elemento estraneo ai desiderata e alle idealità della gente di un certo Sud? Possibile possibile possibile, ultra-possibile, sin quando non faremo nulla per limitare lo spazio consentito a fenomeni come Maradona o per creare, al contrario, modelli di ciclismo, dopo Pantani, diversamente plausibili. Basta così.
Niente ciclismo, al Giro 2014, per noi della Campania, niente affatto ombelico del mondo, forse appendice, niente se non quella propaggine sentimentale, e adiacente al mondo intero, di Montecassino. Sulla Casilina, dopo San Pietro Infine, traguardo dell’anima.
Già l’arrivo in salita, nella Sassano-Montecassino, giovedì 15 maggio. Al Giro 2014, l’ascesa finale a quella Abbazia riedificata, che nei primi anni ’60, - la Seconda Guerra Mondiale aveva appena finito di riordinare le sue tante vittime straniere disperse sulla linea di Cassino in più decorosi cimiteri di guerra -, era diventata una sorta di arrampicata emblematica, quasi religiosa, per i ciclisti giovani del territorio, fra Caserta e il Basso Lazio: da Sessa a Formia. In pianura erano tutti forti, già.
«Ma vediamo chi arriva prima, PRIMO, a Montecassino». 484 metri sul livello del mare, lì dove di San Benedetto e della sua Regola non c’era più nulla, se non la memoria ultramillenaria e un quadrilatero di pietre esiti del bombardamento sbagliato, ad epigrafe del Monastero distrutto e a traccia lineare dell’edificio moderno futuro.
«Chi arriva primo a Montecassino, vincerà i Giochi Studenteschi del Liceo…», era in voga la suggestione delle Olimpiadi di Roma, al paese, nel 1962. C’era un ragazzo molto forte, a Sessa, di cognome Sisto. Forse, chissà, la sfida la vinse lui. Ed a ripensare al dazio, se non ai ricatti, che al ciclismo impone la Città, ben venga un arrivo - non Napoli non Ischia non Sorrento non Ascea - senza l’angoscia di una joint venture per le stagioni a venire.
Ma con uno spettacolo gratuito di cielo spalancato sull’anima e sui gabbiani. E sulla memoria senza nome di mille caduti sconosciuti e su un tramonto di nuovo amore, sugli Aurunci e su Gaeta. Il ciclismo potrà volteggiare, a corsa finita, lassù. Una terrazza. Dove sarà arrivato una buona volta, nel cielo celeste. E primo.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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