Rapporti&Relazioni
LE MIE NUGAE DEL CICLISMO

di Gian Paolo Ormezzano

Passa il tempo e mi scopro sempre più depositario di preziosità, anche minime, del mestiere di giornalista, preziosità che me lo fanno amare anche e specialmente ora che non posso più fare con esso fare l’amore tutti i giorni (e non escludo il fatto che le preziosità mi appaiano tali proprio perché in linea di massima non me le posso più consentire, co­me frequentazione, ad libitum; anzi). Sono gli altri, quelli della sempre immensa tribù dei ciclofili, a sollecitarmi il reperimento e la distribuzione dei ricordi, concorrenziati costoro, presso o meglio dentro di me, soltanto da una categoria, fortissima sentimentalmente, quella dei tifosi del Toro vogliosi di sapere, da un testimone diretto, ”dal vivo”, come era, cosa era il famoso Grande Torino.

Per questo insieme di cose, recentemente mi è accaduto di mettere insieme una mia personalissima memoria di cose belle, anche piccole, anche minime, occorsemi an­dando su quattro ruote ma spesso anche scarpinando nelle zone dei traguardi, al seguito del cosiddetto mondo delle due ruote (che non è, almeno per quelli della mia tribù, il mondo del motociclismo). Cose che alla Giovanni Pascoli si po­trebbero definire, usando il latino, “nugae”, come lui titolò una sua raccolta di poesiole minori, di co­succe molto sue: più che bagatelle, meno che perline. Preferisco giocare al rimpicciolimento dei ricordi per non correre il rischio opposto di spacciare banali cartoline di viaggio come gigantografie.

E allora, se devo proprio com­pilare un’antologia per i ciclofili del mio cuore, più che alla lacrime di Eddy Merckx, mio amico sin da quando era poco più che ragazzo (devo questo a Vincenzo Giacotto il ma­na­ger, che sempre sia ricordato e lodato), la mattina dell’espulsione dal Giro 1969, penso a quelle di Vladimiro Panizza quel giorno che al Giro d’Italia, ormai quarantenne, sull’Aprica assolatissima non ce la faceva proprio più, si era sdra­iato sull’asfalto che però gli scottava la schiena, e fra un singhiozzo e l’altro gridò, mi gridò: “Dimmelo, dillo a tutti che noi ci­clisti siamo delle bestie da fatica!”. E se devo proprio stare e ristare su Merckx, omaggio al nome, ecco che mi dispiace non avere penna valida per descrivere bene lo spessore dell’aria greve quella sera che lui rientrò tardi a casa sua, nell’immensa periferia brussellese (carcan, in argot belga, letteralmente vuol dire morsa, la morsa delle case di quasi campagna che stringono la metropoli). Lo aspettavo per una intervista e intanto sfogliavo al­bum di foto ciclistiche con la figlia Sabrina, lui rientrò tardi, aveva di­scusso per correre un anno ancora per una firma olandese di lamette da barba, aveva persino posato per le prime foto, maglia verde forte ri­cordo, però capiva che sua mo­glie, sua figlia e pure io mica credevamo in pieno ad una bella stagione prossima ventura, era una notte lunga quella che cominciava per l’ormai ex campione, e infatti non volle assaggiare il filetto e l’indivia, quella insalata bianca che noi appunto noi chiamiamo “la belga” e che la signora Claudine aveva cucinato in besciamella con il massimo dell’amore.

Le mie “nugae”, sì, e vado avanti. Jacques Anquetil che alla fine di un trofeo Ba­racchi, la corsa a cronometro per coppie che chiudeva la stagione, mi chiede (sono nella sua stanza d’albergo) se voglio assaggiare quel che resta della sua borraccia, sa che penso al doping, devo provare comunque, sennò sono un vi­le: provo, è pastis del più puro. Poi ride e mi dà una provetta bene sigillata: “Questa è la mia urina, se mi accusano di doping puoi far fa­re un tuo controllo personale e annunciare che sono pulito”. Gli dico che non ho voglia di tornare a casa con quel ricordo di Bergamo, della corsa, è roba troppo importante per me, sono un giornalista non un chimico, e allora mi dice che ha scherzato. Rapporti così fra il giornalista e il campione non esistono più, non possono esistere più, e parlo di qualsiasi sport: mol­to semplicemente perché è cambiato il mondo, non solo perché sono cambiati i modi e gli strumenti di fare giornalismo.

E Coppi che non mi conosceva se non di piccola firma (mi feci presen­tare/raccomandare da due colleghi amici suoi) si spese due ore per parlare con il giornalistuculo che ero, affrontando non l’imminente Giro d’Italia (che non avrebbe di­sputato) ma lo scibile umano, la­sciando che un ragazzotto o po­co più lo coinvolgesse con domande cosmiche su Dio, il mondo, il dopo. Il contrappasso fu Bartali che mi fece spendere un po’ di anni, morto Coppi, per darmi la sua amicizia, ero pur sempre un piemontese della razza di Fausto, ma quando si sbloccò divenne ami­co forte, persino profondo. Al punto che allorché gli annunciai la mia intenzione di fare festa con lui a Firenze per i suoi ottant’anni, mi disse: “Ti proibisco di venire, ho il fuoco di Sant’Antonio, devo portare una maglietta scollata e sembro una donnaccia discinta”.

Estando ai grandi, mi piace “trasmettere” l’ultima voce di uno di loro, una voce che ancora mi suona nell’orecchio. Uno che subito entrò in argomento dicendomi una cosa sua, io non ne sapevo nulla, gli chiesi di ripetere, ma prima di dirmi il suo no­me. E ci mettemmo un buon mi­nu­to per capire che lui aveva preso dalla sua agenda il numero telefonico mio ma che non voleva chiamare me, bensì una altro suo ami­co il cui numero stava nella riga appena sopra, una confusione, ec­co. Ma mi disse: “Però adesso che siamo in linea parliamo, siamo ami­ci no?”. E così parlai a lungo, poco prima che lui morisse, con Fio­renzo Magni.
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