D’estate e d’amore non si muore, sarà sempre la più scontata delle bugie. Ma quando va via dalla vita, contro natura, tragicamente, “donandosi la morte”, un atleta che nel sole delle estati aveva dato la più emblematica immagine di sé, ebbene questo luogo comune di tenerezza suona ancora più stridente con la realtà.
Che in pieno agosto, l’undici del mese scorso, sia scomparso il francese Raymond Delisle, a 70 anni, in un castello del XVI, un relais de charme, certo, che aveva in gestione con la moglie, è scivolato via così. En passant.
Ma non può andar via, senza il garbo di una memoria, di una pur minima citazione, un ciclista che ha offerto una così decorosa figura tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70.
Certo, era per la Francia il tempo in cui si cercava un nuovo Anquetil, e si doveva invece fare di conto oltralpe con la fragilità di Aimar, l’indisponenza di Anglade e la discontinuità di Pingeon, tanto da trovarsi alla fine sempre come alternativa più ragguardevole il sempiterno Poulidor. Pur secondo a tutti, quello, ad Anquetil, Gimondi, Merckx, Zoetemelk...
E Delisle, nella fucina della Peugeot, la antica squadra dalla maglia bianca a scacchi neri, era apparso per qualche stagione una buona ipotesi e poco più, anche lui. Come Ovion, Letort, un conterraneo che gli tirò la volata nel professionismo, Ducasse, sotto quella stessa casacca nobile per cui avevano gareggiato e vinto Simpson e Danguillaume, Bracke e addirittura l’onnipotente Merckx, quando questi era appena uscito, nel ’66, dal recinto fiammingo.
Però Raymond Delisle, corridore elegante ed isolato, un discreto scatto in salita, puntualmente fra i dieci nelle classiche severe come la Liegi e il Lombardia, un bel curriculum di 42 successi in totale, restò solo un regolarista da piazzamenti dignitosi, lui, fedelissimo del Tour, con dodici partecipazioni consecutive, dal ’65 al ’77, e due vittorie di tappa, una nel ’69 ed una nel ’76, con due giorni in giallo, ancora nel ’76. Mai sul podio, però. Un quarto posto, quello sì, nel ’76, per soli nove secondi da Poulidor, terzo. Ed un nono, nel ’77, all’ultima partecipazione, l’unica, fra l’altro, in maglia non Peugeot. Correva, nell’anno del congedo, infatti, per la Miko-Mercier.
Non sarebbe mai diventato un capitano, chissà se non ne aveva l’arroganza o l’aplomb, le qualità tecniche o il cipiglio. Fu un luogotenente da buoni costumi e discreti risultati, giammai un “domestique” sic et simpliciter, neppure di quel Roger Pingeon, che gli era all’epoca abitualmente imposto nella gerarchia di squadra come capitano designato. E gli rimproverava una certa indisciplina tattica.
Ma a Roger Delisle sarebbe rimasto per la vita - e ormai anche oltre - un primato nazionale. E non solo di sciovinismo. Anche di singolarità. Roger Delisle resta infatti l’unico corridore francese ad aver vinto nel giorno della Festa Nazionale, il 14 luglio, con la maglia di campione francese in carica.
Era il 14 luglio del 1969, a Luchon, e Delisle riuscì a portare a successo una lunga fuga, iniziata con l’inglese Hoban, resistendo al ritorno di Janssen, Panizza e il solito Merckx.
Unico nella storia, non solo. Ma doppiamente unico, anche nella memorabilia più segreta del ciclismo. Perché quando si intonò la Marsigliese, quel giorno, davvero una occasione speciale che non avrebbe conosciuto sinora repliche, Raymond Delisle si trovò a cambiar nome. O a duplicarlo, idealmente.
E indossò, per tutti, nell’arco di un pomeriggio almeno, le sembianze, e ancor più l’anagrafe gloriosa di Rouget de Lisle, l’autore della Marsigliese appunto. Delisle, o de Lisle. O ambedue, sul podio.
Per quanto possa colorare di sorriso, il sussurro di questa nota di storia, il dolore del ricordo.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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