Ogni tanto accade ad un vecchio giornalista sportivo che conosciamo bene di parlare con i giovani giornalisti, o aspiranti tali per via dell’infinito loro precariato, così diverso dal sano gagliardo speranzoso abusivismo d’un tempo, quando i tempi del praticantato erano lontani ma in qualche modo sicuri, ovviamente se tenevi duro. Ricordando e presentando il modo suo e di tutti di fare giornalismo di una volta, il vecchio giornalista si rende conto di quanto è stato fortunato ad operare in un mondo dove il campione e il giornalista avevano la sensazione bella e forte di lavorare insieme a pro dello sport, e i rapporti erano semplici, facili, scorrevoli, onesti.
Rapporti testa a testa, personali spesso, ma conseguibili e frequentabili da chi aveva educazione, intraprendenza e buona volontà, tre doti che sembra non possano attualmente convivere nella stessa persona, campione o giornalista che sia, tre atteggiamenti mentali che - pare - sfrigolano fra di essi.
Mi tocca passare alla prima persona singolare, aiuto. Quando ad un giovane racconto (ma per lui spesso favoleggio e basta) che io andavo comodamente e regolarmente nello spogliatoio della squadra anche grande, anche famosa, per parlare dopo il match con i calciatori ancora vestiti del solo asciugamano, so benissimo che non mi crede, o che si sforza di credere alle favole, però in mancanza di meglio. Quando gli dico che al Giro d’Italia come al Tour de France, alla Milano-Sanremo come alla Parigi-Roubaix, al Giro delle Fiandre come al campionato del mondo, dopo la corsa cercavo, lì appena dopo il traguardo, chi aveva vinto, lo avvicinavo, gli ponevo domande ottenendo risposte, e non avevo l’arma penetrante di una telecamera, di un microfono, ero io con il mio taccuino e spesso senza neanche quello, mi guarda come un pazzo, anzi peggio, come uno che crede che lui sia un perfetto imbecille.
E se proprio deve fare uno sforzo e venire incontro al mio ricordo, pensa e spesso dice che a quei tempi lo sport era piccola cosa, ed eravamo quattro gatti giornalisti a seguirlo. Se gli dico che c’erano sulle strade le stesse folle di adesso, che negli stadi c’era ancora più gente di adesso, al seguito degli eventi sportivi molti più giornalisti di adesso, e che un giornale spediva al Giro o al Mundial più inviati di adesso, e che soltanto ai Giochi olimpici c’era il rito massificante e limitante della conferenza stampa, perché eravamo davvero in troppi per uno solo, mi guarda come se fossi uno dei Grandi Mistificatori tanto di moda, e allora a suo modo, in questo porco mondo di bugiardi, mi stima. Aiuto, più che mai aiuto.
Eppure era proprio così, e giuro che riuscivamo lo stesso a fare il nostro lavoro. Non dico che una volta fosse meglio di adesso, ma chiedo che mi si lasci dire che era diverso. Io sono diventato amico fraterno di un grande calciatore, Giampiero Boniperti della Juventus, io tifoso conclamato del Toro, perché lo frequentavo liberamente, tranquillamente, mi aveva presentato a casa sua la moglie tenera e bella e devota, scherzando mi diceva, lui che di nascosto aiutava ed aiuta tantissimi sportivi meno fortunati, “offri tu il caffè, sei giornalista, presto avrai posto fisso, mutua, liquidazione”.
Gimondi mi ha invitato a fermarmi nel suo albergo, era sera assai avanzata nella notte, mi lasciava il letto di un suo compagno ritiratosi perché si era fatto tardi e il mio hotel era lontano assai, eravamo al Tour de France, l’anno era il 1965, lui aveva speso ore a parlare con me, il giorno dopo c’era la tappa, l’ultima, e lui doveva vincere quel Tour. E io non ero speciale, non ero un grande inviato, una celebre penna, facevo i servizi minori, non avevo ancora trent’anni e di buono tenevo la corsa, nel senso che agli arrivi correvo veloce dietro al ciclista vincitore il quale proseguiva sullo slancio, allo stadio volavo i gradini e arrivavo magari prima di altri allo spogliatoio.
Chissà che un giorno non mi tocchi fare dell’archeologia su un mondo che non solo non c’è più, ma che molti pensano non sia mai esistito. E io voglio ora ricordare ora due che lo hanno spartito con me. Uno si chiamava (mi hanno detto che è mancato) Ken Evans, inglese ciclofilo, aveva anche imparato il fiammingo per respirare bene il ciclismo sulle strade belghe, faceva una rivista e mi pagava persino per i miei articoli scritti malamente nella sua lingua e da lui “messi a posto”. Seguii con Ken alcune corse ed era come andare in giro in una pineta a raccogliere fiori e funghi.
L’altro si chiama Gian Paolo Porreca, dispensa qui ogni mese ricordi, nostalgie, cicloverità sentimentali, lo potete leggere qualche pagina più avanti. Un anno Gian Paolo, grande amico mio non solo per via del nome di battesimo che condividiamo, da Napoli salì a Parigi per seguire con me una Parigi-Roubaix, sapeva tutto, era naïf ed esperto insieme, il pavé quell’anno era stato pittato da un artista, era pieno di graffiti colorati, la montagna di paté de foie al ricevimento di fine tappa per tutti, gendarmi in moto e giornalisti, infermiere e meccanici, era persino più alta del solito. A bocca piena e davanti alla sua felicità mi vergognai, quella volta ancora più che altre, della mia fortuna.
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