Rapporti&Relazioni
Tele promozione

di Gian Paolo Ormezzano

Visto tanto ciclismo, specie di corse a tappe (ho il sospetto che sia soltanto questo il ci­clismo valido: ma allora, nonostante due Mondiali e un’Olimpiade, “buonanotte Bettini”, parafrasando il titolo di una celebre commedia musicale di Bartali e Coppi del teatro leggero, cioè di Garinei e Gio­vannini), possono e debbono venire in mente alcune considerazioncelle particolari e magari interessanti. Partendo - ci mancherebbe altro che no - dalla televisione.
Dicono quasi tutti che la televisione è stata benefica per il ciclismo pedalato, offrendo immagini assolutamente, grandiosamente, sensazionalmente nuove delle corse, esal­tando il lato panoramico, uni­co in tutto il mondo delle riprese sportive, e chiudendo l’era, poeticamente valida ma storicamente po­vera, delle invenzioni, delle fantasie esagerate e insincere messe in atto quando la corsa era tutta un mi­stero. Verissimo, ma ci sembra che ormai si sia girato l’angolo e che le televisione, esaurita la sua missione di scopritrice/rivelatrice di uno sport, adesso dovrebbe studiare a pro del ciclismo offerte nuo­ve, esplorazioni nuove. Perché ormai i paesaggi sono stati, come dire?, smaltiti, nel senso che ci sembra di averli visti tutti, e perché l’azione ciclistica vera e propria è piuttosto monotona.

Mostrare per ore e ore gente che pedala è cosa nobile, buona e giusta, ma diciamo pure che non è entusiasmante. Se non c’è il supporto della strada du­ra, della sofferenza esplicitata dai concorrenti, della folla recitante intorno ai sofferenti, magari del maltempo che fa tregenda, ci si può persino annoiare: lo diciamo preferendo essere terribilmente sin­ceri che leggermente blasfemi. Va a finire che si aspetta la volata con­clusiva, se c’è, con lo stesso sa­d­ismo voyeuristico con cui nell’automobilismo si visiona la partenza, “sperando” nell’incidente, che sia insieme il più spettacolare e il me­no grave possibile.

Infine una considerazione mol­to particolare. La visione di una gara ciclistica bella, cioè di un tappone, porta via tanto tem­po, e non si tratta dello stesso tempo che una partita di calcio por­ta via: perché nella partita ac­cadono tante cose, anche cretine, che comunque sincopano la seduta, tengono sveglia l’attenzione. In un tappone, ad esempio dominato dalla fuga dell’uomo solo, il ri­schio del sonno imminente è im­ma­nente. Lo stesso cicloamatore fa in fretta a consumare la curiosità per il materiale che il campione usa e per il tipo della sua pedalata. Quando, oltretutto, più la pedalata è rotonda, regolare, fruttifera, più è monotona...
Ma siamo entrati nel cuore della questione. Perché se quasi tutta la televisione delle riprese sportive patisce il troppo parlare, il bla-bla-bla incompetente e anche quello competente quando è eccessivo, la televisione del ciclismo ha bisogno della parole: proprio perché le im­ma­gini da sole parlano una lingua troppo uniforme, troppo piana. I ciclisti fra l’altro non si picchiano fra di loro e - cosa ancora più gra­ve - i tifosi del ciclismo non si picchiano fra di loro: trattasi proprio di sport noioso.
E allora dovrebbero essere raddoppiate le conversazioni televisive già in atto adesso durante le ri­prese della corsa? Perché no? Ba­sta che siano conversazioni interessanti. I ciclofili e i ciclologhi so­no grandi affabulatori, e non lo san­no. Più volte ci è personalmente occorso di constatare molta at­tenzione per cose che, fra gente non a priori interessata allo sport e men che mai allo sport della bicicletta, dicevamo a mo’ di racconto, e che ci sembravano banali avventure di suiveur, banali racconti di viaggio al seguito dei corridori.

Ecco, possiamo osare, pensare ad una lunga trasmissione in diretta dove non ci si sforza di fare del minimalismo descrittivo raccontano tutto dei corridori, do­ve non si fa neppure della sospirosa archeologia rovistando nel ciclismo d’antan, ma dove si fa qualcosa di interattivo: quiz per i telespettatori, con invito a telefonare o chattare, e premi assegnati subito, scommesse sull’evoluzione di un attacco, di una fuga, di uno sprint, con pagamento immediato (non si tratta di fare del gioco d’azzardo, le cifre dovrebbero essere sempre simboliche o poco più, cifre da ra­gazzini).
Naturalmente siamo andati molto, troppo avanti. Però il problema del­la, come dire?, vivacizzazione del­le telecronache ciclistiche esiste eccome. Naturalmente sarebbe au­spicabile che la gente capisse e ap­provasse la valorizzazione dei gesti semplici, la poesia o quanto meno la sanità dello sforzo sordo, continuo, iterato, non del guizzo epilettico che connota le performances in altre discipline. Sarebbe bello che il telespettatore sapesse ap­prez­zare la semplicità del pedalare, metafora del lavorare sodo nel­la vita, e si compiacesse di immagini semplici e a loro modo solenni per questa semplicità. Ma la gente ormai è viziata, la coscia che piace è quella della showgirl, non quella del ciclista, posposta anche alla co­scia di pollo. Il ciclismo non può cambiare i gusti, intanto che non deve sopravvalutarli. Fare le stesse cosacce che fanno gli altri, però farle partendo da una propria na­tura diversa, che quanto meno ga­rantisce contro l’eccesso, lo sballo, gli deve essere lecito,e sicuramente gli è utile.
Tutto sarebbe migliorabile, anche la premiazione stereotipata: non che debba esserci un rapporto carnale in diretta fra il vincitore e la miss, ma via, siamo ancora la ba­cetto e alla gestualità ammiccante, e al mazzo dei fiori che neanche il professor Cyrano osava proporre all’amichetto di Rossana...

Comunque aspettiamo idee, oltre che rimbrotti e magari schiaffoni. Di nostro diciamo semplicemente che già soltanto strizzando i Bulbarelli e ancor più i Cassani di adesso si otterrebbero cose buone sul piano della cattura dell’interesse e della vivacizzazione della trasmissione. Se poi ogni tap­pa significasse anche una sequenza di quiz ciclstici, con premio finale in diretta, in direttissima, tanto ma tanto meglio. Lo diciamo noi che più volte, anche su queste colonne, abbiamo rivendicato al ciclismo il diritto di essere se stesso, dunque di essere fuori moda, costi quello che costi. Però rimanere sul video e intanto restando fuori moda per tre settimane di seguito può significare andare fuori vita, nel senso di morire. E allora…
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