Rapporti&Relazioni
Meglio i campioni o l’autarchia?
di Gian Paolo Ormezzano

Una domanda semplice a quelli del ciclismo: preferite un Giro d’Italia senza forti corridori stranieri o vi va meglio un Giro d’Italia internazionalmente bene frequentato?
Prima di rispondere, fate una piccola indagine ben dentro di voi, chiedendovi chi ha vinto gli ultimi tre Giri d’Italia, vuotissimi di campioni stranieri. Avete messo in fila, e subito, i tre nomi giusti? Trattasi di indagine utile per testare il vostro grado di interesse e conoscenza, onde andare avanti consapevolmente nella lettura di questo articolo e comunque capire qualcosa di quanto tentiamo di parteciparvi.

Dunque: un Giro d’Italia senza forti corridori stranieri è vincibile abbastanza facilmente da un corridore italiano. Ma la vittoria di un corridore italiano ci soddisfa, ci appaga anche se sappiamo che non ci sono opposizioni straniere valide? Davvero esiste una specie di magia nazionale che porta, alla fine della competizione, ad un applauso convinto al vincitore, anche se sappiamo che in realtà non ha dovuto superare un forte contrasto?
Dunque: un Giro d’Italia con fortissimi pedalatori stranieri, che si dividono le vittorie giorno dopo giorno e ci umiliano nella classifica generale può piacerci in quanto spettacolo sportivo puro e semplice e intanto grande, oppure è soltanto umiliazione o finto snobismo internazionaloide?
Qualcuno può dire che un riscontro facile ci viene dal Tour de France: lì ci sono tutti i maggiori campioni internazionali, lì noi italiani da tempo vinciamo poco o nulla, e fra l’altro l’ultimo successo finale, quello di Marco Pantani nel 1998, è stato parzialmente «sciupato» dalle vicende dello stesso corridore in tempi successivi ma vicini alla sua beatificazione. Ci piace questo tipo di Tour de France, ci piacerebbe esportarne il modello, in pieno, nella nostra Italia?

È un ragionamento che facciamo partendo dal ciclismo ma che si può dilatare a tanto sport, per non dire a tutto lo sport. La televisione sta offrendo, ed offrirà sempre più, una rassegna sportiva di vertice, di vetrina, di qualità spinta. In che misura ci vuole, per un pieno godimento dello show, anche il campione nazionale il vicino di casa, di pianerottolo?
Ci sono stati anche - sempre limitandoci al nostro Bel Paese - degli esempi di sport abbandonati dal pubblico televisivo in mancanza di campioni indigeni, e di sport frequentati invece dagli spettatori divenuti raffinati competenti delle prodezze di ostrogoti. Pensiamo allo sci televisivo degli italiani nel periodo fra Thoeni e Tomba, cioè nel periodo intitolabile a Stenmark: interesse ed entusiasmo sono stati appena un po’ ridotti, ma hanno continuato a vivere e bene. Mentre adesso, nell’oltreTomba, non sembrano esserci più.

Altro esempio quello del tennis: abbiamo frequentato negli anni sessanta e settanta le grandi vittorie internazionali degli azzurri, poi è calato il buio. Per un po’ ci siamo interessati al tennis degli altri, dei campioni stranieri, poi basta, c’è stato il forte calo di visibilità di questo sport, almeno dalle nostre parti. Nessuno Stenmark del tennis - e dire che ce ne sono stati - è bastato e basta per tenerci davanti al teleschermo. A meno di pensare che una ragazzina scosciata e impudica, una tennista che magari non ha ancora vinto nulla ma ha già mostrato tutto, significhi interessamento vero. Teniamo a dire che il nostro discorso non è soltanto teorico. Portare corridori stranieri al Giro d’Italia costa, in molti sensi, perché bisogna vincere la concorrenza del Tour de France e perché bisogna mettere in preventivo anche un’umiliazione, e sulle nostre strade, del nostro mondo della bicicletta. Però c’è chi ogni anno ipotizza che un Armstrong arrivi alla corsa rosa, pur conoscendo il rischio che la usi soltanto per allenarsi a quella gialla o che la umilii dominandola con facilità eccessiva. Intanto che il Tour sembra non patire la presenza di campioni non francesi che ormai impediscono una vittoria indigena dai tempi di Hinault e Fignon: la sua gente, la sua folla è sempre lì, in festa sulle sue strade.

Il Giro come teatrino di provincia dove si applaude al tenore locale di buona volontà e il Tour come la Scala dove è il tempio a fare grandi i sacerdoti, anche se non parlano francese? Immagine forte, magari vera, comunque a priori non da respingere: fra l’altro autarchia può significare, in molti casi, forza della semplicità, orgoglio della piccolezza genuina, persino ecologia delle buone cose di casa...

Non si tratta di un bel problema, ma si ammetta che è un problema bello, specialmente a saperlo leggere bene nella sua impostazione e a non rinunciare subito a risolverlo, anche se non in maniera fissa: per esempio ogni tanto un Giro che si svena per avere degli stranieri, e poi ritorna alla sua essenza primigenia (campioni italiani a dominare per lunghi anni l’albo d’oro dal fatidico 1909, mentre il primo Tour si consegnò, anno 1903, ad un valdostano) e intanto essenza ultimissima di rassegna nazionale. In fondo un’alternativa che il Tour non sembra potersi permettere, e per la sua vocazione smaniosa alla mondializzazione, anche in senso commerciale, e per l’esistenza di un parco indigeno di pedalatori scarso ben più del nostro, che pure non è favoloso, specie per le corse a tappe..
È un problema che appartiene - autarchia o internazionalizzazione - in fondo a un po’ tutto lo sport, ma che il ciclismo evidenzia, ovviamente sulla propria pelle o quanto meno sulla pelle del Giro d’Italia, meglio (o peggio, dipende dal punto di vista) di tanti altri sport. Grosso modo ci sono persino agganci con il problema cosmico dell’essere o dell’avere. E qui freniamo, per non uscire di strada.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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