Editoriale
GENE ITALIANO. L’abbiamo gridato a gran voce: il doping genetico ucciderà lo sport. Alcuni hanno letto questa notizia come la fine del doping stesso, proprio perché nessuno sarebbe più in grado di scovarlo. Dall’Italia e da Trieste in particolare, arrivano però segnali molto confortanti.
Una ricerca italiana si è rivelata in grado di «aggiornare» velocemente il test antidoping della Wada per scoprire l’innesto genetico a fini sportivi. Il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia (Icgeb) di Trieste ha stipulato un contratto con l’organismo mondiale di Montreal, che finanzierà l’istituto italiano con 430 mila dollari, per la messa a punto di un nuovo test «antidoping genetico» che sarà adottato ai controlli internazionali in vista delle prossime Olimpiadi del 2008 e dei mondiali di calcio nel 2010. «Il metodo utilizzato nel gene doping è lo stesso che noi usiamo in fase sperimentale nello sviluppo di nuove terapie genetiche per la cardiologia», ha spiegato Mauro Giacca, coordinatore della ricerca Icgeb, che coinvolge anche le Università di Milano e di Firenze, oltre all’istituto di Biofisica del Cnr di Pisa, «quindi ci troviamo avvantaggiati in questa corsa contro il tempo. Sicuramente prima delle prossime Olimpiadi di Pechino avremo un test anti-gene doping di marca italiana».

PER RISPETTO DELLA VERITA’. La Discovery non sarà esclusa dalla ICPT, la società commerciale che si occupa degli interessi di diciassette formazioni di ProTour (non ne fanno parte la Française des Jeux e le neo ammesse Astana e Unibet). Fosse stata cacciata non sarebbe stata la morte di nessuno, visto che le tre escluse stanno benissimo, ma a livello d’immagine, in un momento in cui nel ciclismo regna la confusione assoluta, sarebbe stato un disastro. Qualche piccolo segnale di quello che sarebbe potuto succedere l’abbiamo avuto poco prima di questo incontro: «Le squadre di ProTour non vogliono Basso». «Il ProTour vuole cacciare la Discovery», queste le prove tecniche di titolo. Una società costituita per gestire l’immagine di parte dei team di ProTour confusa come organo di controllo del ProTour stesso.
A sistemare le cose ci hanno pensato direttamente le diciassette squadre che il 12 gennaio scorso si sono ritrovate a Bruxelles per discutere dell’argomento e alla fine hanno deciso che non conveniva a nessuno escludere il team diretto da Johan Bruyneel, reo di alto tradimento. Ricorderete che il team manager belga aveva aderito al patto tra gentiluomini di non ingaggiare mai un corridore coinvolto nell’affaire spagnolo, ma una volta chiusa la vicenda giuridico sportiva di Basso, ha ingaggiato il varesino contravvenendo al patto. In questo clima di patti taciti, votazioni segrete e pugnalate alle spalle, ai nostri lettori diciamo come realmente sono andate le votazioni. Hanno votato contro le quattro squadre francesi di ProTour (Cofidis, Ag2r, Credit Agricole, Bouygues Telecom), le due tedesche (T-Mobile e Gerolsteiner) e la Csc di Riis. Le altre, tutte a favore. Questo, per rispetto della verità.

I CERTIFICATI DELL’IPOCRISIA. Lo spagnolo Oscar Pereiro Sio aspetta di diventare il vincitore del Tour dopo la positività al testosterone dello statunitense Floyd Landis primo a Parigi. Adesso è il capitano della Caisse d’Epargne a finire nell’occhio del ciclone per tracce di salbutamolo (sostanza presente in farmaci per curare l’asma), al termine di due tappe dell’ultimo Tour de France: la Montelimar-Gap (14a tappa) e la Bourg D’Oisance-La Touissuire (16a). Pereiro ha il certificato dell’Uci, ma per ben due volte non risponde alle richieste della Afld (agenzia francese antidoping) che ha chiesto di controllare la documentazione. Va detto che la responsabilità dei controlli antidoping e dei risultati spetta all’Uci, che poi trasmette gli esiti alla Wada (agenzia mondiale dell’antidoping) e, in Francia, alla Afld, che ha la possibilità di chiedere approfondimenti ai corridori, e nel caso convocarli per un’udienza. Questo con la vecchia legislazione, adesso non più, ma il problema è che la nuova legge francese manca del decreto applicativo, quindi vale per il momento ancora la regolamentazione vecchia.
È vero, Pereiro e la sua società avrebbero potuto rispondere subito alla richiesta dell’agenzia francese, ma è altrettanto vero che anche l’agenzia francese avrebbe potuto darsi una mossa. Ad ogni modo secondo noi non è tollerabile questa sovrapposizione di competenze. Non vorrei apparire ripetitivo o monotematico, ma in questa vicenda non sono tanto sorpreso dalla leggerezza di Pereiro e dei dirigenti della sua squadra (cosa ci sono a fare, a portare in giro solo le valige?), sono piuttosto preoccupato dall’estenuante silenzio da parte dei dirigenti dell’Uci, che da mesi non stanno gestendo più nulla e lasciano che il movimento sia in costante autogestione finendo bersagliato da chiunque: organizzatori di corse, televisioni di mezzo mondo, agenzie antidoping, domani chissà. Io resto convinto di una cosa, l’Uci avrebbe dovuto rispondere con veemenza a nome di tutto il movimento: «i certificati li abbiamo concessi noi e noi ne rispondiamo…». L’Uci, invece, ha scelto la via del silenzio.
Mi direte: questi certificati però sono un vero scandalo. Bene, apriamo la discussione, parliamone, facciamo qualcosa. Proposta: l’Uci e le squadre di ProTour che invocano da mesi codici etici, esami del DNA e trasparenza, facciano una cosa semplice semplice: ci dicano una volta per tutte quali corridori corrono con i certificati in tasca. È un piccolo passo verso la trasparenza, e soprattutto verso la coerenza. Non è ridicolo? Vogliono l’esame del DNA e poi ognuno si tiene ben stretto il certificatino che certifica a chiare lettere solo e soltanto una cosa: l’ipocrisia.

Pier Augusto Stagi
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