di Gian Paolo Ormezzano
Conosco a livello di buona amicizia e di ottima confidenza molti grandi personaggi dello sport italiano, e la mia condizione degli ultimi anni, quella di giornalista libero, collaboratore di alcune testate, mi permette di mandare avanti questo sodalizio senza il problema di dover scrivere di essi in chiave cronistica. Quando ad esempio parlo con Stefania Belmondo o con Josefa Idem, sci e canoa, posso permettermi di parlare dei figli (loro) e dei nipoti (miei), mica della situazione del loro sport in questo momento. Idem nel ciclismo, con Gimondi parlo magari di valli bergamasche e con Moser di vino, mica di Giro d’Italia o di Tour de France. Non scrivo di attualità, non sono condannato al gossip, dunque loro possono persino farmi delle confidenze. Ricambiate.
E’molto bello. A Josefa detta Sefi (la Stefania è invece per gli amici Stefi, possibile al telefono un po’ di confusione) ho raccontato, poche ore dopo il suo argento mondiale in Ungheria, la mia felicità di tifoso del Toro, con la sua squadra in serie A e con la Juventus nei guai: e il bello è che lei mi ha ascoltato.
È molto positivo avere grandi atleti come amici, e non per nulla è dal 1959 che mi coccolo, ricambiato, Livio Berruti: dico 1959 e non 1960 con Roma olimpica. 1959 e a Torino la prima Universiade e lui vittorioso sui 100 battendo un cinese, Chen Cha-huan secondo la grafia di allora (Mao Tse-tung e non Mao Tsedong), che veniva accreditato di un 10” netti primato del mondo ufficioso (la Cina da tre anni era fuori dal mondo ufficiale, olimpico dello sport). Da Bartali Gino mi sono trasferito su Bartali Andrea, uno dei figli, ottimo erede sul piano dialettico ed amicale. Idem per Coppi, da Fausto a Faustino.
E’ molto brutto quando questi grandi atleti o comunque personaggi ti esprimono, magari con riguardo considerato il rapporto che hanno con te, le loro perplessità sul ciclismo. La Idem che è nata tedesca ma si è fatta italiana perfettamente, anche nella nostra lingua che parla con proprietà straordinaria e pronuncia perfetta, mi ha detto che “la cultura del sospetto è una brutta cosa, ma il ciclismo mi spinge a frequentarla”. Mi risparmio abbastanza pavidamente il dialogo sul ciclismo attuale con quello spirito alto e puro che è Maurizio Damilano, il grandissimo della marcia, innamorato della bicicletta al punto che, quando a Mosca 1980 vinceva l’oro olimpico, mi faceva il regalo di chiedermi di Saronni e Moser, e che ha raggiunto una felicità specialissima allorché ha seguito il Giro d’Italia alla guida di una squadra della Asics del suo amico Franco Arese, con Bartoli che arrivò pure ad indossare una fugace maglia rosa.
Il problema è mio, si capisce, ma mi pare sia dilatabile a grave in assoluto. Fra poco avrò pudore o anche paura di parlare di ciclismo con un campione di golf, e potrebbe essere la fine.
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Resto sempre dell’idea che se si fa nel calcio un antidoping serio si scoprono cose turche, nel senso anche di cosacce italiane, e che Pantani rispetto a certi fruitori di cocaina, anche nello sport, era un novizio. Sono certo che placche enormi di doping non sono state individuate, sia dal punto di vista della ricerca che dei regolamenti che della geografia. Sino ai Giochi di Sydney 2000, ad esempio, il doping negli Stati Uniti non esisteva: in realtà non esisteva l’antidoping, tutto qui. Poi ci fu il caso di Hunter, pesista, marito della Jones, il sipario fu alzato e divenne persino lecito pensare che nel 1988 a Seul la medaglia d’oro olimpica dei 100 fosse stata tolta a Ben Johnson canadese della Giamaica da un controllo severo soltanto con lui e non per esempio con Carl Lewis. E adesso gli Usa sembrano la sentina del doping, da Landis a Gatlin e di nuovo alla Jones, addirittura con il rischio di esagerare al contrario, nel sospetto come prima nell’ingenuità, nella diffidenza come prima nella fiducia. La Cina che si avvia a celebrare i Giochi del 2008 a Pechino ad esempio non può non avere un programma chimico di garanzia di risultati, lo hanno avuto quasi sempre tutte le nazioni ospitanti l’evento olimpico, si pensi alla Spagna che prima del 1982 di Barcellona ai Giochi non aveva vinto che tre medaglia in tutta la storia a cinque cerchi e che ne vinse tredici in quell’occasione, alla Grecia che alla vigilia di Atene 2004 è stata costretta ad accettare che due suoi velocisti, fortissimi stando ai responsi cronometrici, fossero dopati, come tutti sospettavano ma nessuno arrivava a provare, vista l’abilità “aiutata” con cui i due sfuggivano ai controlli.
Tutto vero, però comincio a patire troppo i guai chimici ricorrenti del ciclismo, riesco a difenderlo meno bene che in passato, quando mi veniva facile e giusto dire che lo usavano come parafulmine. Mi piaceva tanto parlare del Basso facile, sicuro, esemplare al Giro d’Italia, e me lo hanno tolto con due righe su una missiva spagnola. Sono in crisi, ecco.
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Una prova? Che mi sono goduto meno di altre volte la calciopoli, la moggiopoli, e mi sono sdegnato meno del solito per tutti i lavori occultamento della verità e di ammorbidimento della severità soprattutto a pro di Milan e Juventus. Come se avessi troppo da pensare ai panni sporchi della mia famiglia, per godermi la sporcizia dello spocchioso altro sport. Un certo ciclismo mi ha tolto in parte il piacere di scoprire il calcio di vetrina (cioè qualcosa di profondamente diverso dallo sport, ci tengo a dirlo perché io amo lo sport) ufficialmente marcio, e persino di più di quanto io stesso avessi detto o scritto in tanti anni di inascoltato giornalismo arrabbiato e triste.
Sono arrivato persino a pensare che il Basso della vigilia del Tour e il Landis del dopo-Tour mi hanno fregato, e l’americano assai più vistosamente ed ufficialmente. Un calciomane impenitente ed impunito potrebbe dirmi che mi sta bene, e lì per lì non saprei neanche cosa rispondergli. Aiuto.
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