Puccio, professione gregario

di Giacomo Mozzo

La forza della dedizione e della generosità. Lo spirito di sacrificio e il senso di appartenenza. Salvatore Puccio è un uo­mo che lavora nell’ombra, nel silenzio, al fianco dei propri illustri capitani. Un corridore che negli ultimi dieci anni, da quando nel 2012 ha sposato la causa del Team Sky, si è sempre messo al servizio della squadra, fungendo da imprescindibile punto di riferimento per compagni e tecnici.
Il siciliano, classe 1989, si appresta a vi­vere l’undicesima stagione nel team diretto da Dave Brailsford. Un’annata, però, che è partita subito con un intoppo: «Sono stato in ritiro a Maiorca con la squadra nei primi giorni dell’anno, poi purtroppo ho contratto il Covid e so­no dovuto rimanere fermo per una settimana». Uno stop che, con tutta probabilità, lo obbligherà a rivedere il proprio programma di questo inizio stagione: «Il primo appuntamento avrebbe dovuto essere al Tour de la Pro­vence, dal 10 febbraio, ma adesso sarà tutto da ricalibrare. Ho ripreso ad allenarmi da pochi giorni e magari ver­so la fine della settimana avremo qualche indicazione in più per poter stilare il nuovo programma».
L’obiettivo della prima metà dell’anno è ovviamente rappresentato dal Giro d’Italia: «Originariamente, dopo il Pro­vence, avrebbe dovuto esserci l’UAE Tour e in seguito Tirreno-Adria­tico, Mi­lano-Sanremo, Settimana Coppi & Bartali e Tour of the Alps, ultimo test in vista del Giro d’Italia. A questo punto, sicuramente salterò il debutto francese, mentre spero di non dover rinunciare agli Emirati. La Tirreno di quest’anno, con il cambio delle date (si conclude di domenica e il sabato successivo si corre la Sanremo, ndr), risulta molto interessante. Andrà di pari passo con la Parigi-Nizza, perciò ri­spetto agli scorsi anni, indipendentemente dal programma intrapreso, tutti i protagonisti arriveranno un po’ alla pari, con gli stessi giorni di recupero a disposizione».
È difficile chiedere a Salvatore Puccio di obiettivi personali. Per lui, c’è una perfetta simbiosi tra individuo e squadra. E il concetto che torna spesso, nelle sue parole, è quello di “lavorare per la squadra e aiutare i capitani”.
Uno dei direttori sportivi della Ineos Grenadiers, Matteo Tosatto, l’ha definito il “faro” della squadra britannica, nonché un “capitano al servizio dei capitani”: «Dopo tanti anni qui, credo sia normale che chi arriva in squadra mi veda come punto di riferimento. Ho un buon rapporto con tutti, non ho mai avuto alcuna discussione e sono visto un po’ come un “amico-compagno”. Quando arrivano nuovi compagni dal Sudamerica, ad esempio, io che me la cavo bene anche con lo spagnolo mi adopero per facilitare il loro ingresso e renderne meno problematico l’ambientamento nel gruppo. Perché l’impatto con un team di queste dimensioni, con più di trenta corridori e tutto il personale che gira intorno, non è certo dei più semplici».
Un altro pregevole attestato di stima è quello di Tom Pidcock che, al termine dell’ultima Vuelta, ha raccontato di es­sere rimasto letteralmente impressionato dal lavoro svolto dal siciliano, comprendendo il motivo del rispetto che i grandi leader riservano ai propri gregari. Anche qui, Salvatore mostra umiltà e pacatezza: «I leader sono persone molto intelligenti. Si accorgono subito di chi ha voglia di lavorare e mettersi a completa disposizione, di chi lascia da parte le proprie ambizioni personali per mettersi al servizio della squadra. Poi Pid­cock è molto giovane, e per un debuttante è spesso difficile trovare una figura di riferimento in un team, come può essere la mia all’interno della Ineos. Soprattutto con questi “nuovi giovani”, che partono subito fortissimo, corrono fin da subito da protagonisti, il pericolo è che nel volgere di un paio di stagioni vadano a spegnersi. Mentre io sono dell’idea che il percorso di crescita debba essere un po’ più graduale».
Parole che mettono in luce un concetto molto importante, un aspetto peculiare del ciclismo degli ultimi anni: i giovani di oggi che entrano e corrono subito da protagonisti, i Bernal, i Pogacar, gli Evenepoel che fin da subito acquisiscono i gradi di capitano e hanno la squadra a loro completa disposizione. Uno scenario diametralmente opposto ri­spetto ad una decina di anni fa, quando Puccio faceva il proprio debutto tra i professionisti, forte comunque di prestigiosi risultati ottenuti nelle categorie inferiori, uno su tutti il Giro delle Fian­dre Under-23 conquistato nel 2011.
«All’epoca, nel Team Sky c’erano Bradley Wiggins e un Chris Froome già in rampa di lancio. Quindi per un esordiente c’erano davvero poche occasioni di mettersi in mostra, bisognava sgomitare e mettersi inizialmente a disposizione dei grandi leader».
Una dimensione che Salvatore Puccio ha fatto propria, rendendola il tratto distintivo della propria vita da ciclista: «Il ciclismo è cambiato molto da quando sono passato professionista. Oggi i corridori si cercano e si scelgono già tra gli juniores. Quindi è normale che, quando arrivano tra i pro, questi siano rivestiti di maggiori responsabilità. In passato, invece, c’era forse un diverso concetto del “rispetto” verso il grande campione, che all’epoca aveva già 28-30 anni e una carriera caratterizzata da risultati costanti nel tempo. Oggi, al contrario, si dà maggior importanza e visibilità al ragazzo che ottiene subito grandi risultati rispetto al corridore che ha avuto una crescita regolare nel corso degli anni. Non so se si possa parlare di rammarico, è semplicemente un segno dei tempi che cambiano».
Un piccolo rimpianto, al massimo, può essere legato al fatto di non aver mai corso il Tour de France: «Si, diciamo che un pizzico di rammarico c’è. Per­ché sono consapevole che non mi re­stano molti anni a disposizione e non partecipare mai al Tour costituirebbe un piccolo dispiacere. Essendomi sempre concentrato principalmente sul Gi­ro, per forza di cose le chance di andare al Tour si riducevano. Ma in un team come il nostro, con tanti corridori forti, è normale che i tecnici preferiscano portare una squadra fresca, “nuova” ad un grande giro che scatta poco più di un mese dopo la Corsa Rosa».
La Ineos Grenadiers si presenta al 2022 con un organico profondamente rin­novato: sono usciti, tra gli altri, Ser­gio Henao, Gianni Moscon, Rohan Den­nis e Ivan Sosa e sono arrivati Elia Viviani, Omar Fraile e molti neo professionisti, come Heiduk, Plapp, Shef­field, Tulett e Turner. Una politica proiettata al futuro, all’insegna della valorizzazione dei giovani. Giovani che Puccio vuole coinvolgere e far crescere: «C’è stato un bel ringiovanimento della squadra, con tanti ragazzi che andranno ad affiancarsi ai molti grandi leader che abbiamo. E poi il ritorno di Elia mi fa davvero piacere, perché è sempre rimasto un amico, fin dai tempi in cui correvamo insieme nel Team Sky. Con tanti leader che si dirigono verso la fine della propria carriera, come Geraint Thomas o Richie Porte, l’innesto dei più giovani è fondamentale per costruire il futuro, inserendoli comunque su una base di talenti altrettanto precoci, come sono appunto Bernal e Pidcock».
La testa, in ogni caso, sembra già rivolta al Giro d’Italia, una corsa che la Sky-Ineos ha già vinto tre volte nelle ultime quattro edizioni. L’unico intruso, nel 2019, è proprio quel Richard Carapaz che dovrebbe essere il leader del team nella rincorsa al prossima maglia rosa: «Richard ha già una storia e una mentalità da vincente. Ha già conquistato il Giro, sa come si fa. Purtroppo il bruttissimo incidente occorso in allenamento a Egan Bernal potrebbe scombussolare un po’ i piani della squadra ma so­no sicuro che a Budapest ci presenteremo con una squadra fortissima, completa su tutti i settori, per conquistare la Maglia Rosa».
Un giorno in rosa nel 2013, il contributo di inestimabile valore ad ogni grande giro conquistato dai suoi capitani, le convocazioni in Nazionale. Manco a dirlo, come high­light della propria carriera Sal­va­to­re Puccio sceglie un mo­mento di condivisione, di squadra, di gruppo unito all’inseguimento di un obiettivo comune.
E ci regala una risposta che è principalmente un inno a questo sport: «Nel no­stro lavoro, in quello che facciamo, è sempre tutto molto emozionante. Sem­pre in giro per il mondo, sempre alla scoperta di cose nuove, sempre alle prese con sfide da affrontare. E in tutto ciò, il ricordo che mi tengo più stretto è probabilmente la conquista della Vuel­­ta 2017 con Chris Froome: una prova di forza collettiva davvero superba, eravamo proprio un bel gruppo e dominammo la corsa sin dall’inizio».
Per poi lasciarsi andare, finalmente, ad una considerazione personale: «Ri­cordo che in quelle tre settimane avev­o una condizione atletica tra le migliori di sempre. Per questo quella Vuelta la conservo con grande piacere».

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