De Marchi: «Non mollo mai e la maglia è un premio»

di Pier Augusto Stagi

Alla fine quello che sorprende di questo ragazzo con la testa rossa e molta ma­teria grigia contenuta dentro, è che nella bella e cattiva sor­te resta sempre lì, con i pie­di ben puntati per terra. Cer­to, Ales­sandro De Marchi sogna, sorride e gode anche, ma se poi dopo qualche giorno il suo Giro finisce contro una parete rocciosa ed è co­stretto a tornarsene a casa con sei co­stole rotte, la clavicola destra spaccata oltre che la pri­ma e la seconda vertebra toracica malmesse, lui continua a guardare il bicchiere mezzo pieno. De Marchi era nei radar del c.t. Davide Cassani per i Gio­chi di Tokyo, ma lui non si scompone, non grida alla luna, volta pagina con la stessa naturalezza usata per resettare la mente dopo una sconfitta, dopo aver messo la ma­glia rosa e averla portata per due giorni. Lui, da buon friulano, terra di confine arida e dolce, dura e fertile, non si lascia prendere dallo sconforto.
«Cose che succedono - ha spiegato qualche ora dopo l’incidente il friulano della Israel Start-Up Nation dal letto del Careggi di Firenze, che sulle strade del Giro ha compiuto 35 anni -. Ri­cor­do poco della caduta. Qualcuno davanti a me ha sbagliato la curva e mi ha trascinato fuori traiettoria. Poi sono andato a impattare a destra contro il muro. Non posso fare altro che rimboccarmi le maniche e ricominciare un’altra volta. Peccato anche perché avrei voluto con tutto il cuore arrivare nel mio Friuli. Però forse poteva finire peggio... ».
Alessandro De Marchi è il “rosso di Buja, 6.000 abitanti a nord di Udine, a un passo da Gemona e Osoppo, terra devastata dal sisma e medaglia d’oro al merito civile.
«Io sono un corridore, ma prima ancora un uomo che crede nei diritti fondamentali e nei valori civili» ha spiegato con gli occhi lucidi, poco dopo aver ve­stito la prima maglia rosa della sua vi­ta al termine di una grandissima tappa, condizionata dalla pioggia in mezzo all’aspro Appennino reggiano e modenese, e conclusa a Sestola, non ci poteva essere premio più bello che la ma­glia rosa.
«Sapere che la gente è contenta per quello che ho fatto e per come corro, è più gratificante di una vittoria, dei ri­sultati o di questa maglia», disse in quei giorni rosa.
Una vita da emigrante del pedale, che ha anche faticato a passare nella massima categoria, e non è un caso che il pri­mo ad aprirgli le porte e a concedere una chance a questo ragazzo sul quale pochi avrebbero scommesso è stato ancora una volta Gianni Savio, con la sua Androni Venezuela, un team italo-sudamericano. Poi per Alessandro solo team stranieri: le americane Cannon­dale e Bmc, la polacca Ccc e ora l’israeliana Israel Start-up Nation.
«Sono felice di queste scelte. Non dobbiamo essere troppo chiusi nelle nostre piccole realtà».
Cinque vittorie, e il prestigio del dorsale rosso al Tour 2014, quello di Nibali, che premia il miglior attaccante.
E dire che appena tagliato il traguardo di Sestola un po’ di amarezza c’era. In fuga fin dal mattino in 25, poi sull’ultima salita di Colle Passerino, quattro chilometri al 9,9% e punte al 16%, De Mar­chi resta solo con lo statunitense Dom­browski, vincitore di un Giro Ba­by (in quel periodo si chiamava Gi­roBio, ndr). Osso durissimo, in palio la maglia rosa, tra loro solo 39”.
«Pensavo di aver perso l’occasione, ma il motto è la vecchia regola: non mollare mai».
Arriva secondo di tappa, ma è primo nella generale. Il “rosso” si veste di rosa, e piange come un bimbo.
«È chiaramente il premio per i mille tentativi che ho fatto in undici stagioni, la gran parte dei quali andati male. È una maglia che voglio dedicare a mia moglie Anna e al nostro piccolo An­drea. Cosa provo? Gioia, ma mi sento anche un po’ fuori posto».
Il piccolo Alessandro scopre la bicicletta a sette anni, quando entra nella squadra del suo paese, la Bujese. Poi una buona carriera da dilettante, la difficoltà a trovare una squadra prof: nessuno lo voleva, troppo vecchio. Poi il passaggio a 25 anni con l’Androni di Savio. Rifiuta anche lo stipendio fisso delle Fiamme Azzurre per giocarsi le sue carte, come ci ha confidato in quei giorni di gloria Roberto Bressan, che l’ha avuto in maglia bianconera nel Cy­cling Team Friuli: «Senza questo carattere avrebbe già mollato da dilettante - spiega -. Gli dicevo semplicemente que­sto: “La vita ti può remare contro, ma se ci credi, ci credi e basta”. Lui vi­ve di questo. Da stagista all’Androni, alla Parigi-Bruxelles, il diesse Ellena gli chiese cosa volesse fare. E Alessandro: “Quello che so fare, andare in fuga”. Partì dopo 20 chilometri e lo ripresero a 20 dall’arrivo. Le sue radici sono tutto, non ha mai voluto andare a vivere all’estero. “Io sono friulano, io sono italiano, e le mie tasse le pago qui”: questo è il suo credo».
È un ragazzo eccezionale, uno dei mi­gliori testimonial ro­sa che questo bellissimo Giro ha avu­to. Un corridore ve­ro e autentico, capace di parlare di tutto, con la saggezza di un ragazzo che da sempre ama le buone letture.
«Sono stupito di questa reazione per il braccialetto che porto. Non ci vedo niente di così particolare, politico o partitico. Si tratta di due genitori che vogliono la verità».
Con queste parole Alessandro appena fasciato di rosa ha parlato senza retorica del braccialetto che porta al polso anche durante le gare: è di colore giallo e reca la scritta “Verità per Giulio Regeni”. De Marchi è friulano come il giovane ricercatore torturato e ucciso a inizio febbraio 2016 in Egitto, senza che Il Cairo abbia mai fornito una spiegazione convincente sul suo omicidio.
«Io prima di essere un ciclista sono un genitore, un marito e non vorrei mai trovarmi in una situazione del genere. Non mi costa niente mettere questo braccialetto e portare questo messaggio», ha aggiunto.
Tutto chiaro, tutto semplice per questo uomo che già da ragazzino non era as­solutamente banale: lo sa bene Anna, sua moglie, che il rosso canuto l’ha co­nosciuto proprio sui banchi di scuola.
«Lui era il classico bravo bambino, se­rio, come adesso, io più scansafatiche, pigra, non legammo neanche un po’», ha raccontato ad Ales­san­dra Giardini. I due ragazzi abitavano a un chilometro di distanza, «ma alla fine ci siamo ritrovati da adulti, nel 2014, al principio dell’estate. Una serata nel giardino di un locale con i vecchi compagni di classe, da lì abbiamo cominciato a sentirci. E anche quella volta è stato un combattente, non ha mollato mai, ma io ce ne ho messo a cedere».
Due anni dopo, Anna Calligaro è di­ventata la signora De Marchi, a novembre 2018 è nato Andrea e alla fine del prossimo settembre arriverà un fratellino o una sorellina. Alessandro in rosa non ha creato alcun terremoto in casa De Marchi, loro che sono nati appena dopo quell’esperienza tragica vissuta dai loro genitori e corregionali.
«Ero felice per lui, perché se lo meritava - spiega Anna -. Non l’ho mai visto così raggiante e luminoso. Gliel’ho an­che scritto: goditi tutto quanto».
Anna parla del suo uomo con ammirazione e stima, che spesso è anche qualcosa di più dell’amore, o comunque rende l’amore solido e invalicabile. «Ammiro la sua calma, il suo modo di approcciare alle cose. Lo invidio per come sceglie le parole, per l’attenzione e la cura che sa mettere in tutto. Non si dimentica mai di ringraziare le persone che lo hanno aiutato, la riconoscenza è importante. In cosa siamo simili? En­trambi cerchiamo di dire quello che abbiamo nel cuore, senza tanti filtri: se ho dei principi non li nascondo. Il braccialetto per Giulio Regeni lo porto anch’io, da anni. Uno che ha visibilità fa bene a veicolare certi messaggi: non si tratta di fare politica, ma di difendere i diritti umani. Mi hanno chiesto se è difficile vivere con un atleta professionista? Potrei dire  che è peggio vivere con lui lontano. All’inizio era dura, soprattutto quando partiva per i Giri. Con Andrea mi pesa meno. Se è attento? Molto, quando c’è lui c’è. Sa fare di tutto. Ama anche cucinare: il suo pollo al curry è davvero da maglia rosa. Di­fatti per me Ale è da tempo il migliore di tutti, la mia maglia rosa».

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