Bernal: «Voglio vincere tanto e dappertutto»

di Pier Augusto Stagi

Del colombiano ha la pelle ambrata e un sorriso che illumina come il sole la sua terra. Due occhi svelti e due gambette che sembrano fatte per andare di fretta, anche se Egan Bernal sa anche aspettare il suo momento, come ha fatto al Tour scattando sull’Izoard. Ha una flemma british che lo accompagna ed è forse per questo che è entrato su­bito nei radar di Dave Brailsford, il capo della Ineos.
Lo incontriamo a Maser, quartier generale della Sidi, dove Dino e Rosella Si­gnori lo accolgono da Re. E nonostante abbia solo 22 anni, Egan Re lo è per davvero, visto che il trono e lo scettro gli sono stati consegnati sui Campi Eli­si lo scorso 28 luglio. Il trono è stato un podio da groppo alla gola, lo scettro una maglia gialla che ha illuminato la ville lumière. 
Forse non è bello dire che la Sidi è ai suoi piedi, ma che tiene ai suoi piedi assolutamente sì. E la cosa è ricambiata.
«Guarda, io ho sempre usato solo scarpe della Sidi e francamente lì resto - ci dice lui con quel sorriso gentile e gli occhi curiosi di chi non solo vede, ma guarda -. Le scarpe sono un accessorio estremamente delicato per un ciclista. Sono davvero uno strumento di la­voro prezioso e strategico: devono es­sere comode, confortevoli e affidabili. Io chiedo che durino un’intera stagione. Non amo cambiare i miei strumenti di lavoro, men che meno le scarpe».
Il prossimo anno Sidi festeggerà i sessant’anni di vita, ma quest’anno ha brindato grazie a te alla quindicesima affermazione al Tour de France…
«Di questo ne sono felice, ma spero di poter arricchire questo bottino, per me e per loro».
Possiamo dire che il 2019 ti ha cambiato la vita?
«Sì, è stata sicuramente la stagione che mi ha cambiato la vita. È stato l’anno della mia esplosione. Parigi-Nizza, Giro di Svizzera e poi il Tour de France: boom! Chi l’avrebbe mai detto. Sono il primo colombiano a vincere la Grande Boucle, in verità an­che il primo sudamericano, e l’ho fatto a 22 anni, quindi non me la racconto: sono consapevole di aver fatto qualcosa di eccezionale. Certo, la mia vita è cambiata e ora mi riconoscono in tutto il mondo, mentre in Colombia è difficile anche andare a prendere un caffè... Per fortuna sono un tipo tranquillo e mi piace stare a casa con la mia famiglia, con la mia fidanzata Xiomara e il nostro cane Coco, un bastardino. Ma non mi lamento, la popolarità mi piace molto e poi fa parte del gioco. Ogni cosa ha il suo risvolto della medaglia, ma questo è un risvolto molto bel­lo».
Tu hai iniziato con la mountain bike: quanto è stata importante per te?
«La mountain bike è stata la mia fortuna perché mi è servita per imparare il mestiere del ciclista e mi ha permesso di arrivare fresco al ciclismo su strada. Quel­lo del cross country è uno sforzo esplosivo, concentrato in poche de­cine di minuti, quindi non ho sprecato energie. Se tornerò alla mountain bi­ke? Oggi dico di no, io ho sempre preferito la strada e non penso proprio ad un ritorno stile Sagan, però mai dire mai».
Credi che i ciclisti italiani svolgano una attività dilettantistica troppo in­tensa e stressante?
«Non conosco bene le cose, però di una cosa sono convinto e l’ho sentito da voi: la benzina è quella e se la consumi prima, non puoi sperare di andare avanti dopo. Mi sembra che voi vogliate vincere tanto e subito. Se andate a vedere chi emerge, ha iniziato tardi. Io non solo ho iniziato tardi, ma non mi sono mai spremuto e avevo ancora tut­to da imparare: insomma, i margini di miglioramento erano enormi, perché ero assolutamente da formare: sia sotto l’aspetto fisico che tecnico».
Torniamo alla tua impresa al Tour de France: quando hai pensato davvero che era fatta?
«Solo alla fine, quando ho messo la maglia gialla. Per tutta la corsa mi sono solo concentrato sul fare bene, per me e per la mia squadra. Poi quando ho messo la maglia ci ho pensato, ma fi­no a quel momento il mio compito era quello di stare il più possibile vicino al mio capitano, Geraint Tho­mas. Il giorno più bello?  Quan­do ho messo la maglia gialla per la prima volta… quello è stato il momento più bello di tutta la stagione. La tappa di Tignes ce l’avevo nella testa, avevo messo perfino il 54 perché sapevo che c’era anche tanta discesa da affrontare e volevo giocarmela fino in fon­do. Peccato che poi le condizioni meteo abbiano costretto gli organizzatori a neutralizzarla; chissà, magari quel giorno avrei fatto un’impresa…».
Come si convive con tanti campioni in squadra: Froome, Thomas e dal prossimo anno, come se non bastasse anche Richard Carapaz oltre ai tanti giovani rampanti di casa Ineos?
«Guarda, con i grandi corridori è facilissimo convivere. Siamo tutti professionisti e consapevoli dei nostri mezzi. E poi nel ciclismo c’è un giudice supremo che non ho certo scoperto io: è la strada, che alla fine mette sempre d’accordo e ognuno al posto che gli compete. Quin­di ben vengano i campioni e anche i ragazzi di talento come Ivan Sosa e Brandon Rivera, che arriverà il prossimo anno. Sosa è uno scalatore forte: avete visto cosa ha saputo fare al Gran­Piemonte. Con Rivera mi alleno: va bene in salita ma non è il classico scalatore: è veloce e non è male a crono».
Ti vedi corridore da classiche?
«No, sono un corridore da corse a tap­pe. Certo, Liegi e Lombardia sono gare bellissime, ma il mio obiettivo restano le corse a tappe. Al Lombardia ho fatto bene e sono orgoglioso del mio terzo posto, ma non sono arrivato pronto per quell’evento, io preferisco preparare obiettivi come i grandi giri».
Mondiale e Olimpiade non ti solleticano neanche un po’?
«Francamente no, non ci penso proprio. E una cosa è certa: non li preparerò. Mi concentrerò sulle corse a tap­pe. È quello il mio terreno di caccia e lì voglio migliorare, crescere e raccogliere il più possibile. Se poi sarò convocato per Tokyo, è chiaro che non rifiuterò la convocazione e cercherò come sempre di fare del mio meglio, ma non saranno certo una mia priorità».
Vacanze?
«Prima ho un po’ di burocrazia da sbrigare: sto per trasferire la mia residenza a Montecarlo e le carte da produrre sono davvero tante. Poi andrò in Co­lom­bia fino all’inizio di dicembre, quando ci sarà il primo raduno del Team Ineos. E proprio dal Giro di Colombia penso che inizierà la mia stagione 2020 all’inizio di febbraio».
A proposito di Colombia, a parte te non avete vissuto una grande stagione...
«Non sono d’accordo, non siamo andati male. Il fatto è che il livello del ciclismo continua ad alzarsi anno dopo an­no, ci sono nazioni nuove e corridori nuovi che si affacciano alla ribalta. Pensate solo alla Slovenia con Roglic e Pogacar cosa è riuscita a fare».
Quanto sei amato in Colombia?
«Tantissimo, anche se per il momento il mio popolo adora Nairo Quintana, come è giusto che sia. Lui è l’uomo che ha fat­to fare al movimento co­lombiano il vero salto di qualità. Ha realizzato il sogno di un popolo, quello di arrivare al podio di un Grande Giro e poi di vincerne anche più di uno, quindi è un mito. Io sono il primo colombiano ad aver vinto il Tour, ma Nairo è Nairo da tanti anni. Rivalità? Neanche per sogno: siamo due ragazzi e corridori diversi e di generazione diverse. Lui ha una grande storia alle spalle, io mi sono appena incamminato».
Ma sei arrivato dove lui, forse, mai potrà arrivare…
«Lui è un grande corridore da tanti anni, io devo provare a confermarmi. Le parole stanno a zero. Nel ciclismo conta solo fare, e quello che si fa va fatto bene».
In varie interviste hai rivelato che ti sa­rebbe piaciuto fare il giornalista.
«Amo leggere, anche se ultimamente riesco a farlo sempre di meno. Prima di una gara leggo sempre qualcosa, ma non fatemi passare per intellettuale, perché non è vero. Scrivete piuttosto che sono attento alle cose che mi circondano, quello sì. Mi sarebbe piaciuto scrivere perché penso di essere un tipo riflessivo e curioso. La lettura aiuta a conoscere, la scrittura aiuta a conoscersi».
Visto che ami leggere e non sei assolutamente banale, una domanda politica: cosa pensi della Riforma del ciclismo?
«Francamente non lo so, è davvero tut­to troppo complicato. Ma una cosa penso di saperla: una squadra come la Androni Giocattoli, che ha cresciuto me e tanti altri talenti e continua a farlo anno dopo anno, deve essere messa nelle condizioni di correre sempre. E aggiungo che per me Giovanni Ellena è una persona speciale, non solo un direttore sportivo, ma un vero ami­co. Nella vita bisogna essere fortunati e io lo sono stato: trovare sulla mia strada certe persone sono doni di Dio».
A proposito, l’Italia è sempre nel tuo cuore?
«E come non potrebbe esserlo? In Ita­lia ho trovato una seconda casa quando la Colombia e la mia famiglia erano lontani. Ellena, Gianni Savio  e gli ami­ci di Cuorgné che ho trovato qui mi hanno dato una mano importante: gli italiani sono davvero fantastici. Dopo la Colombia, il vostro è il Paese che conosco meglio. Ma non chiedetemi cose tipo il mio piatto preferito... Io mangio tutto e in Italia si mangia be­nis­simo. Preferisco i primi ai secondi, ma anche quello dipende dal momento di stagione che sto vivendo. In Co­lom­bia si mangia in modo completamente diverso, non si può paragonare alla vo­stra cucina, ma c’è una cosa che amo: si chiama Arepa. È un pane che mi arriva dalla Colombia, Xiomara ed io lo mangiamo spessissimo. L’ho fatto anche la mattina del Gran­pie­monte e ho vinto...».
In Italia diversi anni fa la stagione si concludeva con una cronocoppie storica come il Trofeo Baracchi: con chi ti piacerebbe correre in futuro una prova del genere?
«Con Castroviejo: è un grande corridore e a cronometro è micidiale. Se si corre, voglio vincere e se voglio vincere una corsa così, la affronterei con lui».
Attrice o attore. Musica preferita?
«Un po’ di tutto, ma non ho amori particolari. In questo periodo seguo Niki Giam, un cantante portoricano che ha abitato anche in Colombia e ha fatto una serie televisiva bellissima. Ecco, lui mi piace davvero parecchio e l’ho se­guito con grande piacere».
Pensi di essere uno che si accontenta?
«No, io non mi accontento tanto facilmente. Cerco sempre di migliorarmi. Quindi se vuoi sapere quanto ho intenzione di vincere, io ti dico tanto. Al­me­no ci provo. Se mi vuoi chiedere se pen­so di vincere ancora il Tour, ti ri­spondo per­ché no?. L’ho vinto una volta, posso ripetermi ancora. Ma se mi chiedi: pensi solo al Tour? Io ti ri­spondo: no, mi piace vincere un po’ di tutto e dappertutto, esattamente come Froome, Contador e Nibali».

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