Dai, spiegaci...
di Gian Paolo Ormezzano
Quando dico a mio figlio, che fa il giornalista sportivo, che una volta il corridore era tutto nostro, non appena conclusa la sua fatica, senza intercapedine di tecnici, medici, sponsor, uomini delle pierre, colleghi giornalisti ma della radiotelevisione e che una volata non era una volata se il corridore, non importa se vincitore o battuto, non diceva al giornalista il rapporto adottato (“che cosa avevi sotto?”, la domanda classica formulata soprattutto dal collega della “rosea” Rino Negri per conto di tutti noi), capisco che lui deve fare appello all’affetto filiale per credermi.
Credo che non mi creda invece per niente quando gli dico che dopo la partita di pallone, si trattasse anche della madre di tutte le partite, o della figlia, i giornalisti potevano entrare nei due spogliatoi, bastava aspettare quei dieci minuti in cui si pensava che il mister o il presidente avrebbero detto le loro paroline ai giocatori, e poi tutti nostri i campioni, perdenti o vincenti, nudi e pronti a qualsiasi domanda e soprattutto non addestrati per risposte generiche. A me occorse, quando ero a poche ore dall’assunzione della direzione di Tuttosport, di andare in uno spogliatoio di quello che allora era l’unico stadio di Torino, raccogliere materiale nel senso di dichiarazioni, sollecitate e no, tornare in redazione e umilmente scrivere il pezzo come il collega giovanissimo appena arrivato a metter piede nei sacri locali.
Proprio in quella domenica, ultimo suo giorno di direzione, il mio predecessore Giglio Panza, maestro vero e che sempre sia lodato, usò il mio caso con i colleghi per sottolineare la mia - appunto - umiltà, e io vanificai il suo nobile operato dicendo che secondo me le interviste potevano essere il meglio, il massimo del giornalismo, e quindi non erano un servizio umile, casomai l’opposto.
Evito ogni paragone con quanto, a proposito di disponibilità degli atleti, accade adesso, o meglio non accade adesso, non accade più e chissà se accadrà ancora. Per la verità nel ciclismo (mi tengo ai due sport che ho frequentato giornalisticamente di più, ma l’esemplificazione vale anche “usando” alte esperienze in altre discipline), nel ciclismo dicevo è ancora possibile saltare addosso al corridore subito dopo il traguardo e porgli magari la domanda di Rino Negri, ma si rischia di essere sbattuti lontano dai detentori di priorità assortite. E tanto poi c’è la conferenza stampa…
Troppo spesso con domande preordinate o comunque prevedibili, di smaltimento e consumo facili, la conferenza stampa è uno dei rituali più umilianti per il giornalismo vero. L’unica speranza è che subentri lo scazzo, dell’intervistato assai più che dell’intervistatore di solito composto e serio, specialmente se speranzoso di sparare almeno una domande difficili. Se c’è lo scazzo si esce dai binari noiosi, possibile persino che nasca la polemica, in questo caso alimentata dal consesso vasto che assiste al parto di essa e magari lo orpella di domande sue.
Mi rendo conto di scrivere una sorta di confessione di povertà, di inadeguatezza del giornalismo scritto di oggi rispetto a quello di una volta, e magari mi si obietta che il vastissimo territorio dei social ha generato nuovi rapporti umani, in qualche modo trasferibili sulle colonne del giornale classico. Ma si tratta di tutto un mondo della comunicazione in grande evoluzione, e chi pretende di conoscerne le nuove frontiere è un millantatore. Dunque chiudo riservando le ultime righe di questo intervento alla prodezza non omologata di un collega. Vado indietro, Messico 1986, l’Argentina ha appena finito di vincere il Mundial, ecco in sala stampa Maradona per noi giornalisti affamatissimi di lui, ecco che un italiano, Enrico Crespi, uno del giornalismo scritto per La Notte di Milano e poi del giornalismo televisivo per Montecarlo, passa a Maradona appena arrivato un microfono e gli pone le sue domande a cui Maradona, in italiano, risponde, convinto forse che si tratti di un superguru televisivo, lì delegato a intervistarlo per l’Italia tutta e non solo. Crespi pone domande su domande, Maradona risponde, siamo in mille e passa e ascoltiamo persino più Enrico che Diego, ad un certo punto salta il coperchio della pentola, i colleghi stranieri, in maggioranza di lingua spagnola, capiscono che Crespi sta conquistando una formidabile esclusiva per la sua televisione e insorgono, Maradona stesso capisce, Crespi “stacca” ma ormai ha fatto lo scoop sensazionale, gloria per lui e invidia per noi.
Ricordo che capii abbastanza in fretta che Enrico lavorava per se stesso, presi nota delle domande sue e delle risposte di Diego, tifai perché l’intervista non finisse mai, e se ricordo bene a Crespi, lì odiatissimo da quasi tutti, feci i miei poveri ma sentiti complimenti. Ho seguito e patito centinaia di conferenze stampa, anche se soprattutto ai Giochi olimpici, mai ho visto una performance come la sua. Non so bene se Crespi aveva preparato tutto, contando sulla felicità da gloria ipnotica di Maradona, o se l’idea di burlarsi del mondo giornalistico tutto gli era venuta lì per caso. Fu una cosa molto napoletana e abbastanza italiana, comunque, e sarebbe stato il caso di complimentarci subito tutti con lui, invece che accusarlo di prevaricazione furbastra.