Ci siamo lasciati alle spalle un 1995 che non è stato certamente generoso con il ciclismo italiano. A livello sportivo è stato piuttosto arido, a livello umano semplicemente terribile. Sì, un anno terribile, che ci ha presentato un conto salatissimo: due morti e molti, troppi incidenti avvenuti in corsa e sulle strade di allenamento.
Abbiamo perso fior di corse: dalla Milano-Sanremo al Mondiale, ma quel che è più doloroso è che per una volta non ci troviamo a fare il conto delle vittorie o delle sconfitte ma delle perdite, quelle perdite che svuotano le strade e riempiono il cuore di amarezza. Abbiamo perso due cari amici: Fabio Casartelli, campione olimpico a Barcellona nel ’92, grande speranza del ciclismo italiano, morto in Francia lungo una discesa del Tour; e Danilo Furlan, abile imprenditore, grande amante delle due ruote, vittima di un incidente aereo.
La cosa che più ci tormenta e non ci dà pace è che la Sanremo, il mondiale, il Tour de France un giorno, forse nemmeno tanto lontano, torneranno ad essere nostri traguardi; non torneranno, invece, le vite spezzate di Fabio Casartelli e Danilo Furlan, due uomini estremamente diversi ma profondamente uguali nelle prospettive e nei tristi destini. Giovani, perché Fabio come corridore e Danilo come imprenditore erano due forze giovani. Due speranze del ciclismo italiano: Fabio, passato al professionismo con un alloro olimpico, avrebbe certamente trovato il modo e il tempo per emergere, perché la stoffa, il talento non gli facevano difetto; Danilo Furlan, invece, aveva creato un piccolo impero tessile e nel ciclismo aveva trovato ciò che da giovane non era riuscito ad avere: la bicicletta. Ne era innamorato. Amava il ciclismo e quella grande famiglia fatta di gente semplice e laboriosa. Ma aveva anche incominciato a organizzarla un po’ meglio, tanto è vero che una volta eletto presidente dei Gruppi Sportivi Professionistici aveva chiamato al suo fianco Claudio Corti, a capo della segreteria di un’associazione che per troppo tempo era rimasta contenitore vuoto, privo di idee e iniziative. Stava lavorando a un progetto ambizioso: voleva dare più credibilità e peso ai gruppi sportivi, si stava muovendo nell’interesse di tutti per organizzare le squadre di ciclismo sulla falsa riga di quelle del calcio, avrebbe certamente anche posto le condizioni per evitare, in accordo con la Lega professionisti, che squadrette di basso profilo continuassero a mantenersi alle spalle dei corridori. Perché è inutile negarlo, ci sono troppe squadre che fanno le «furbe» e prendono per la gola corridori con un tozzo di pane e, spesso, quel tozzo di pane promesso non viene nemmeno dispensato. Ad oggi ci sono ancora molti corridori che non prendono lo stipendio: da quattro-cinque mesi. Alcuni di questi non l’hanno mai preso, come Marco Villa che quest’anno ha dovuto cambiare aria e lasciare l’Amore & Vita per approdare alla Brescialat di Mario Cioli e poter così godere di uno stipendio, come tutti.
Ecco, Danilo Furlan con i suoi colleghi più illuminati e la preziosa opera di Claudio Corti si stava muovendo per dare gli strumenti necessari a un movimento che fosse in grado poi di affrontare con maggiore sicurezza il ciclismo del Duemila, alla vigilia tra l’altro di un avvenimento storico, l’Olimpiade di Atlanta aperta al professionismo.
Sia Fabio come Danilo sono due gravi perdite per il ciclismo italiano. Due storie che liofilizzano vicende simili, di vita e di morte. Ma di queste due storie, ciò che ci consola, è che non rimarrà solo il ricordo, ma soprattutto resteranno le idee. Ma le idee, si sa, non devono mai fermarsi su se stesse, altrimenti diventano una fissazione. Devono produrre altre idee. E allora pensando a Casartelli, alla sua Idea di campione rimasta incompiuta, vogliamo augurarci che il suo volto pulito e leale sappia trasmettere ad altri ragazzi la voglia di salire in bicicletta e percorrere le strade che Fabio ha avuto solo il tempo di imboccare. E l’Idea di Furlan serva da spartito a chi verrà dopo di lui per creare una nuova coscienza del ciclismo, al passo con i tempi.
Certo è difficile accettare la morte. È difficile soprattutto perché non se ne capiscono mai compiutamente le ragioni. Ma spesso la chiave di lettura è racchiusa nelle cose più semplici, più banali.
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