STORIA | 17/11/2016 | 07:29 Due giorni prima Richard Laizer era tornato a casa per dare la buona notizia: ce l’aveva fatta, era stato ingaggiato da una squadra professionistica, la MTN. E tutti insieme – il papà, la mamma e i sette figli, tre fratelli e quattro sorelle - avevano festeggiato, ricordando come il papà fosse contrario, “il ciclismo, uno spreco di tempo ed energie”, e come la mamma fosse prima impaurita, “il ciclismo, un pericolo a ogni curva”, e come si fosse trasformata in supporto, sostegno, gregario, “il ciclismo, questo ragazzo deve mangiare e bere, allenarsi e riposarsi, fare la vita dell’atleta”. Due giorni dopo, all’inaugurazione di una chiesa cattolica, una mano assassina lanciò una bomba e nell’esplosione, insieme con due ragazzini, morì anche la mamma di Richard. E da allora la bicicletta di Richard non è solo messaggera di libertà, ma anche di amore, non è solo ambasciatrice di passione, ma anche di riconoscenza, gratitudine, memoria.
Se la Tanzania avesse un campionato nazionale, Laizer avrebbe collezionato più maglie di quelle tricolori di Costante Girardengo. Perché è un fuoriclasse, strada e mountain bike, scalatore e cronoman, sportivo dell’anno nel 2013 e 2014, e in patria non ha rivali. La bicicletta fu una folgorazione: “Quella di un fratello di famiglia, la nostra è una famiglia allargata. Gli serviva per governare le mucche, come un cowboy, ma a pedali. Me la prestò, ci salii, trovai l’equilibrio, me ne innamorai. Avevo 11 anni”. La bicicletta fu un’eredità: “Mio zio era un corridore, la mia prima bici da corsa fu la sua, a scatto fisso. Avevo 16 anni”. La prima squadra fu quella di casa: “Arusha cycling club, mi consegnarono una bici, tutta per me. Avevo 17 anni”. La prima corsa fu una vittoria: “Subito, appena avuta la bici, da junior, 90 chilometri. Non sapevo nulla, avevo tutto da imparare e tanta strada da fare”. In compenso, poca scuola: “Mio padre non voleva che ci andassi. E’ una tradizione dei Maasai: la considerano una perdita di tempo. Così il mio primo giorno è stato a 10 anni, l’ultimo a 13. E prima e dopo ho sempre lavorato, cose piccole, locali, finché non ho trovato un impiego come ‘bike messenger’. Era inevitabile”.
Il Tour of Rwanda è la sua corsa preferita: “Dura, bisogna arrivarci allenati, altrimenti, con tutte queste salite e discese, c’è solo da soffrire”. E i Tour of Rwanda misurano il suo percorso, la sua vita: “Il primo, nel 2007, con l’Arusha travestita da squadra nazionale, fu una scoperta. Ma la mia bicicletta, paragonata con quella dei ruandesi, era sorpassata. E la mia preparazione, confrontata con quella di tutti gli altri, era approssimativa”. “Quello del 2011 mi dette la consapevolezza di poter fare il corridore. Non era più un sogno, ma poteva diventare un obiettivo”. “Quello del 2012 mi regalò le prime soddisfazioni. Potevo finalmente giocarmela anch’io”. Intanto la prima volta ai campionati africani, in Eritrea, nel 2011, con un settimo posto nella crono, intanto la prima volta al Centro africano di specializzazione, in Sud Africa, nel 2012, intanto il primo contratto da professionista, con la MTN, nel 2013, e le prime corse in Europa, tra Svizzera e Francia. Fino all’ingaggio con la Bike Aid, squadra tedesca, con la missione di lanciare talenti africani nel grande ciclismo.
Laizer è affascinato dalle diversità: “In Africa il ciclismo è guerra, dal primo all’ultimo metro, non c’è mai un attimo di tranquillità. In Europa il ciclismo è organizzazione, quando si va piano c’è il tempo per godersi luoghi e compagnia, ma quando si va forte, si va fortissimo, a tutta, a più di tutta. E in Sudamerica il ciclismo è più vicino a quello europeo che a quello africano, ed è sempre una festa”. Quel Tour di Rio de Janeiro, quel terzo posto conquistato in una corsa in Francia, quei podi saliti in Sud Africa. Il 2016 rischia di essere consegnato come un anno difficile: “L’ho cominciato all’Amissa Bongo Tropical, in Gabon. Febbre, malaria, ritirato, tornato alle gare con l’Arusha in maggio, poi il Tour Meles Zenawi, in Etiopia, in agosto, il Tour de Machakos, in Kenya, in ottobre, un paio di gare in mountain bike, vinte, e adesso finalmente il Tour of Rwanda”. Dorsale numero 3, “qui corriamo per Jean-Bosco Nsengimana, è la sua corsa di casa, conosce tutte le strade e tutti gli avversari”.
Richard chiede strada: “Voglio correre. Per il piacere e la soddisfazione, perché è nella mia natura ed è il mio lavoro. E perché, se non corro, non guadagno”.
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