Stretching e relax alla partenza, per il ruandese Jérémie Karegeya, dorsale 102
L'eritreo Tesfom Okubamariam, dorsale 51, campione africano sia su strada sia a crono, attende il via seduto sul marciapiede
L'uomo della lavagna, "ardoisier", mentre segnala il vantaggio al fuggitivo Samuel Mugisha
Il bello del ciclismo: sulla tribuna d'onore, sull'ultimo gran premio della montagna, si attende il passaggio del gruppo
Un giovane appassionato di ciclismo guarda il gruppo e sogna un futuro più leggero, volatile, rotondo, magari ciclistico
Valens Ndayisenga, vincitore della tappa e leader della generale, attende la cerimonia di premiazione in una tenda con le miss
Valens Ndayisenga, il re della seconda tappa
PROFESSIONISTI | 15/11/2016 | 13:31 KARONGI (Ruanda) - Una di quelle tappe che scrivono la storia del ciclismo. Peccato averne perduto il finale. Perché a 10 chilometri dall’arrivo, con il gruppo dei migliori – compatto – smanioso di precipitare al traguardo dopo cinque chilometri e mezzo di discesa da alta velocità e quattro e mezzo di curve da altissimo mistero, sono volato al traguardo. E lì è spuntato, solo, solissimo, che più solo non si può, Valens Ndayisenga, ruandese, uno di quelli nati il primo gennaio (del 1994) grazie a un censimento riparatore, vincitore del Tour of Rwanda 2014. Valens ha sbancato le classifiche, e c’è già chi sostiene che per quella generale la festa sia appena cominciata, ma i giochi già finiti.
Da Kigali a Karongi, da un formicaio metropolitano a un paradiso lacustre, da una folla straboccante di mani pupille voci a una folla ricca di colori suoni sole, lungo 124,7 chilometri, attraverso cento colline e dentro cento villaggi, fra bambini imprigionati dalle mani dei genitori e carcerati separati da reti e fili spinati, non un metro diritto, piano, banale, ma un romanzo popolare da inventare e poi tramandare, e un’emozione – quella del passaggio dei corridori – destinata a rimanere nella memoria del cuore. Terra di banane ed eucalipti, di capre e gorilla, terra rossa come un campo da tennis, terra di case fatte di argilla e di orti creati dovunque, terra sottratta per dare un tetto di lamiera a chi non ha neppure quello, terra che fa da patria, da scuola, da vita di tutti i giorni. E quel giorno all’anno in cui il Tour of Rwanda elettrizza la terra, galvanizza la strada, dunque realizza la vita, è festa grande, mobile, pazza.
Nove chilometri e 900 metri dalla partenza ufficiosa a quella ufficiale, pronti-via, tre uomini in fuga: due ruandesi, Joseph Biziyaremye (nato il primo gennaio, anche lui, ma del 1988) e Samuel Mugisha (con 18 anni e 11 mesi, il più giovane del gruppo), e il neozelandese Nick Miller. Miller è il primo a mollare, Biziyaremye il secondo a cedere, Mugisha guadagna un vantaggio di 3’45” e poi, quando comincia a pedalare anche con le spalle, remando, pagaiando, tirando il manubrio come se fosse una fune, viene inghiottito sulla salita di prima categoria, 17 chilometri e mezzo, da quota 1527 a 2151 (ma poi si salirà fino a 2290). L’unica strategia del ciclismo africano è zemaniana:attaccare. Attacchi e contrattacchi, coraggiosi e folli, fiduciosi e disperati, improvvisi e reiterati, per mettersi in evidenza, in mostra, in luce, in pista anche se si corre su strada, in avanti anche a costo di finire indietro, in tanti, in pochi, insieme, indipendentemente, inspiegabilmente. La gente esulta, impazzisce, delira. Per Valens, all’arrivo, dove le tribune sono terrapieni e gli spettatori calano dall’alto come pellerossa nei film western, c’è chi lancia la maglietta stracciata in aria, forse sperando nel miracolo di riceverne un’altra che non abbia perduto il colore a forza di essere lavata nei fiumi.
La seconda tappa è conclusa e archiviata, il pezzo scritto e fra poco spedito, nell’aria rimangono le note di un gruppo musicale e il rullo dei tamburi. Il tam tam del ciclismo sembra infinito. Domani la Karongi-Rusizi, 115,9 chilometri lungo il Lago Kivu e altri sei gran premi della montagna, l’ultimo all’arrivo. Chi ci arriverà.
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