STORIA | 20/08/2016 | 10:07 Prima il traguardo, poi l’esame. Prima la medaglia, poi il verdetto. Prima la gara, poi l’antidoping. Ogni risultato va considerato con beneficio d’inventario fino a prova contraria. Ma per sottoporsi al test, bisogna farla. La pipì. E non è così semplice. Almeno non lo è per tutti.
Il caso più problematico fu quello di Chris Finnegan, un boxeur britannico, che si laureò campione olimpico nella categoria dei medi ai Giochi di Città di Messico, nel 1968. Finnegan era spavaldo e aggressivo sul ring, ma timido e riservato in bagno, soprattutto quando c’era qualcuno che lo doveva controllare mentre riempiva la provetta di urina. Quel giorno, per facilitarlo e incoraggiarlo nell’operazione, gli sussurrarono, gli fischiettarono, gli aprirono i rubinetti del lavandino. Niente. Poi lo rifornirono di bottigliette di acqua. Niente. Poi gli allungarono anche tre o quattro pinte di birra. Niente. Cercarono di distrarlo autorizzandolo a rilasciare interviste televisive – ma sempre sotto rigido controllo – e accompagnandolo in un ristorante dove celebrare la vittoria. Finalmente, all’1.40 di notte, Finnegan si alzò da tavola e gridò: “Chi vuole un po’ di pipì?”. I commissari si precipitarono con lui in gabinetto, sigillarono il campione e corsero in laboratorio. Esito ok.
Sarà la disidratazione, sarà l’emozione, sarà la tensione. La stessa difficoltà a – per così dire - liquidare la gara fu provata anche dal quattrocentista britannico David Hemery, oro nel 1968 (nonostante massicce dosi di acqua, Coca-Cola e aranciata), il marciatore messicano Daniel Bautista, oro nella 20 km nel 1976 (pur riempito di 10 lattine di bibite) e dal pugile britannico Tony Willis, bronzo nel 1980 nella categoria dei welter (aranciata, acqua e tre ore di attesa).
Il caso più divertente è quello del nuotatore canadese Alex Baumann. Vinto l’oro nei 400 misti ai Giochi del 1984, Baumann trascorse quasi due ore cercando di fare abbastanza pipì per soddisfare l’antidoping. Alla terza birra, i commissari si accorsero che Baumann aveva 20 anni (a quel tempo la maggiore età era fissata a 21), gli tolsero il boccale e gli dettero bibite analcoliche.
Il caso più umano riguarda il mezzofondista neozelandese Rod Dixon, terzo ai Giochi del 1972. Disidratato non solo dal sudore ma anche dalle lacrime, perché commosso dalla medaglia olimpica che rappresentava il sogno della sua vita, Dixon riuscì a produrre solo poche gocce. Imbarazzato, domandò al commissario se fossero sufficienti. E il commissario, comprensivo, rispose: “Per l’oro no, ma per il bronzo sì”.
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