PROFESSIONISTI | 28/11/2015 | 07:19 Krynica Zdroj, Polonia, 10 agosto 2009: Alessandro Ballan vince sotto il diluvio la sua unica corsa in maglia iridata. Un’oretta più tardi, in un anonimo hotel che ospita diverse squadre entra un gruppetto di ragazzi. Uno di loro, cappellino da rapper in testa, si avvicina e in una strana lingua chiede di Stefano Zanatta, il diesse della Liquigas. Non era un tifoso in cerca di autografi, come poteva sembrare. Anzi nel giro di qualche minuto la firma l’avrebbe messa lui sul suo primo contratto da corridore professionista. Inizia così l’avventura nel ciclismo che conta di Peter Sagan, attuale campione del mondo. Ma andiamo ancora più indietro nel tempo. Per conoscere il ragazzo che veste la maglia iridata, riavvolgiamo il nastro fino alle sue prime pedalate. «Ho seguito le orme di mio fratello Juraj, che ha iniziato a correre e vincere fin da ragazzino. Ho cominciato a pedalare verso i 4 anni per divertirmi, a gareggiare a 9 quando l’allenatore di Juraj, un giorno mentre tornavamo da una sua gara che ero andato a vedere, mi ha proposto di provare. In inverno mi allenavo con gli sci di fondo, d’estate con la bici. Come sono andate le prime corse? Le ho vinte quasi tutte, ma dopo 3-4 anni volevo smettere per dedicarmi solo alla discesa libera o al downhill che mi sembravano più divertenti. I miei parenti mi hanno impedito di prendere quella strada perché ritenevano queste discipline troppo pericolose e una bici da discesa era troppo costosa per le possibilità della mia famiglia, così ho proseguito con la mtb (in questa specialità nel 2008 ha vinto il campionato del mondo, il campionato europeo e il campionato nazionale nella categoria junior, ndr) e la strada».
E alla prima gara. «A Bratislava, la città capitale della Slovacchia. Staccai tutti e arrivai con un relativo vantaggio a braccia alzate tutto solo. Ero davvero piccolo, ero nella categoria mini. Si dice così? (sorride, ndr). Ho una foto troppo buffa che immortala quella prima vittoria: avevo un casco che sembrava un elmetto da guerra e un completino che mi stava larghissimo perché la squadra non aveva a disposizione divise a misura di bambino, scarpe da ginnastica e la bici che con papà avevo comprato al supermercato e colorato di verde metallizzato».
Ai suoi sogni. «Da bambino non avevo chissà quali progetti.Ho studiato informatica all’Istituto Tecnico Amministrativo. A 11 anni ho frequentato un corso di recitazione, insomma qualche lezione per sentirmi un attore, ma è stata un’esperienza molto breve... Fosse durata di più, magari oggi vivrei a Hollywood! A parte gli scherzi, prima il ciclismo per me era un semplice hobby, da qualche anno è diventato il mio lavoro e mi ritengo molto fortunato perché posso vivere della mia passione».
Alla sua famiglia, che gli ha permesso di inseguire ciò che desiderava e di diventare l’uomo che è oggi. «In primis devo dire grazie ai miei genitori (Peter è l’ultimo dei quattro figli di mamma Helena, che fino a qualche anno fa mandava avanti un piccolo supermercato a Zilina, e papà Lubomir che aveva un ristorante-pizzeria sempre nella cittadina slovacca che si trova sul confine polacco: Milan di 36 anni, Daniela di 34 e Juraj di 26, ndr) e ai miei fratelli, in particolare al più “vecchio” che per me è sempre stato un modello e a Juraj che per motivi di età e lavoro ha condiviso con me tutti i momenti importanti della mia vita, anche sportiva. Un pensiero devo mandarlo anche ai miei allenatori in Slovacchia che sono riusciti a farmi migliorare, a chi mi ha permesso di prendere parte alle corse fuori dal mio paese dove la concorrenza era maggiore e soprattutto a chi mi ha portato in Italia».
Pennellato il Peter bambino, ora sì che possiamo tornare alla sua storia più recente in cui c’è tanto azzurro. «L’arrivo nel vostro paese nel 2008 non è stato per niente semplice. Non parlavo la vostra lingua e non capivo niente, alla sera andavo a dormire con il mal di testa perché passavo le giornate concentrato a cercare di apprendere almeno qualche parola. Dopo tre mesi in “casetta” con i ragazzi della Marchiol ho imparato la lingua (anche un po’ di veneto) e mi sono sbloccato, da lì è stato tutto più facile». Per farci raccontare il mondo di Peter Sagan abbiamo chiesto aiuto a tre uomini che sono stati e sono fondamentali per la sua crescita: chi l’ha scoperto, chi l’ha introdotto al professionismo e chi lo consiglia tutt’oggi.
Enrico Zanardo, lo scopritore Al suo primo anno da juniores, Peter disputò i mondiali su strada in Messico e si piazzò quarto alle spalle del terzetto italiano composto da Ulissi, Ratto e Favilli. In quell’occasione fu notato da Enrico Zanardo, ex tecnico della Pasta Montegrappa, a cui il promettente slovacco era stato segnalato da amici di lungo corso. «Alcuni amici me ne avevano parlato fin da quando era allievo. Conoscevo bene Kamil Hatapka, che quando c’era ancora la Cecoslovacchia era il CT della Nazionale, e successivamente è diventato vicepresidente del Parlamento slovacco. Ha sempre avuto un debole per il ciclismo e mi ha coinvolto per far ripartire l’attività nel suo paese. Creai un team GS3 (l’attuale corrispettivo oggi sarebbe una Continental) per lanciare i giovani più interessanti del Paese. Da allora sono passati parecchi anni ma tra noi è rimasto un rapporto di stima reciproca, così all’apparire di questo talento me l’hanno in qualche modo affidato, dandomi fiducia per costruire un percorso adatto a lui per arrivare al professionismo».
Tutto è nato con il Mondiale di ciclocross a Treviso. «Sì, nel 2008 la Slovacchia doveva venire a correrlo, ma non avevano tanti mezzi, così mi chiamarono per avere un supporto. Peter arrivò il giorno prima della gara accompagnato solo dal papà e da un meccanico, finì con l’argento al collo. Quel giorno ebbi un’ulteriore conferma delle sue potenzialità, anche senza strutture intorno sapeva dimostrarsi un vero talento. Mi colpì il suo porsi di fronte alla situazione con orgoglio e determinazione, quasi spavaldo. Già a 18 anni aveva questo carattere, che è il suo marchio di fabbrica e manifesta con entusiasmo nel suo modo di fare ciclismo. Oltre a delle evidenti doti fisiche, possedeva quella consapevolezza e autostima fondamentali per affermarsi. Quello stesso anno sono stato in Slovacchia e, con le possibilità della squadra nazionale, abbiamo cercato di offrirgli un calendario di livello con il quale si è subito dimostrato a suo agio. Si è messo in mostra in gare prestigiose come Corsa della Pace, Giro d’Istria e Lunigiana. L’ho segnalato ad Amadio, visto che ero legato alla Liquigas da un legame di amicizia e conoscenza antica. Roberto aveva vinto nell’85 il campionato del mondo nell’inseguimento a squadre, io all’epoca allenavo Martinello e di quel quartetto faceva parte anche Lombardi, che tornerà più avanti nella storia di Peter a chiudere il cerchio».
L’avete fatto crescere senza mettergli fretta. «Sì. Completata l’attività tra gli juniores, è passato al Gs Dukla Trencin, squadra di riferimento del suo Paese dove avrebbe corso per una stagione prima di passare nella massima categoria. Aveva bisogno di crescere a livello internazionale, io lo seguivo in Italia come diesse, ma come struttura faceva riferimento alla squadra dilettantistica Marchiol. Veniva preparato da Paolo Slongo, anche lui mio ex corridore, alloggiava nella foresteria del team. Intanto gli trovai due sponsor per finanziare viaggi e corse in Italia e gli cercavo casa nella zona dove venivano organizzati i Liquigas Camp. Ero molto fiducioso e mi sono esposto parecchio per lui, ma ho sempre avuto prudenza nel fare esternazioni esagerate sul suo conto. Ricordo che un giorno una persona che lavorava per un’agenzia che lo stava già seguendo lo definì in mia presenza il più forte corridore al mondo. Mi sembrava azzardato da dire a un ragazzino di 17 anni. Ne ho visti tanti di valore perdersi per strada così come al contrario ho visto atleti acerbi che ci hanno messo del tempo a esplodere. Lui è stato bravo a sviluppare le sue qualità e a circondarsi di persone fidate, che gli hanno permesso di far emergere il suo talento».
Sarà stato conteso da molte squadre... «Ha ricevuto diverse proposte di contratti da grandi team, non era passato inosservato al primo anno da Under. Per certo lo volevano Riis e Bruynel, Lefevere gli aveva anche fatto dei test che però non avevano dato valori eclatanti... La Liquigas gli ha dato fiducia offrendogli un contratto al minimo, rivisto dopo pochi mesi alla luce del fatto che fin dalle prime corse aveva dimostrato qual era il suo valore. Dopo i primi risultati in Australia al Tour Down Under, ho convinto Roberto a mettergli a fianco il fratello e ho preso loro un appartamento all’interno di una villetta di due pensionati a Cima d’Olmo (TV). E qui ha vissuto finché non si è trasferito a Montecarlo. Peter nella Liguigas dell’epoca ha avuto la fortuna di trovare il supporto tecnico e umano ideale per un diamante grezzo come era lui. In quella squadra è stato forgiato al meglio, sono felice di averlo spinto per questa formazione. Gli anni trascorsi in maglia verdeblu sono stati fondamentali per la sua crescita, dispiace molto pensare che non abbiamo più una squadra del genere. Speriamo presto possa rientrare sulla scena perché è una mancanza enorme per il ciclismo italiano».
Qual è la sua forza? «Oltre alle qualità naturali, il talento puro è quello che fa la differenza, ha una marcia in più a livello caratteriale e comportamentale. Sa stare in equilibrio tra l’essere un ragazzo giovane che vive la sua età con spensieratezza e la professionalità necessaria in un mondo nel quale i dettagli vanno curati con estrema attenzione. È esuberante, spigliato, agonista fin nel midollo, ad andare in bici si diverte, vive la soddisfazione di fare qualcosa che gli piace da morire. Peter è una macchina da guerra, è uno che azzarda, improvvisa, esce dagli schemi anche tattici. A inizio carriera questo era un suo limite, l’ha fatto sbagliare, ma gli ha permesso allo stesso tempo di aggredire corse mitiche nonostante avesse di fronte a sé campioni blasonati. L’istinto qualche volta l’ha tradito, ma sta raggiungendo il giusto equilibrio tra l’estro e l’esperienza del vero campione. La sua carta vincente è la creatività, qualità che l’ha fatto diventare un personaggio esemplare pur restando semplice».
Sei orgoglioso di averlo lanciato? «Io sono schivo, non voglio prendermi nessun merito, ma dentro di me ho la soddisfazione di aver visto le aspettative mie, e di chi in qualche modo me lo ha affidato, confermate. Sono felice per lui perché è un ragazzo trasparente e buono, caratteristica per me fondamentale. Io l’ho supportato come ho potuto, vederlo vincere in tv il mondiale mi ha fatto avvertire un groppo allo stomaco e scendere qualche lacrima. Conosco la sua storia, so quanta strada ha fatto per arrivare sul tetto del mondo, quindi ho condiviso la sua emozione. Speriamo che questo traguardo sia solo il preludio di una grande carriera e che si conservi a lungo così com’è».
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