IL CASO PANTANI. Davide De Zan vs Andrea Rossini, due tesi

GIUSTIZIA | 31/01/2015 | 07:00
Il caso Pantani è anche un caso letterario. Libri di ogni tipo e tenore, con tesi anche diametralmente opposte, in linea con la tra­dizione molto italiana fatta di campanili e fazioni. Una polemica irrisolta tra colpevolisti e innocentisti, complottisti e negazionisti: Marco morto di overdose come dicono le tesi ufficiali o ucciso, come sostiene la famiglia Pan­tani, che quest’estate è riuscita a far riaprire l’inchiesta grazie al lavoro dell’avvocato Antonio De Rensis.

Tanti i lati oscuri di questa vicenda, molti i punti interrogativi. Unica certezza: comunque vada, ognuno resterà della propria opinione. Chi considera un mistero la morte di Marco Pantani, continuerà a considerarla tale anche in seguito, al pari delle morti di Pier Paolo Pasolini o Luigi Tenco.
Da quando è stato riaperto il caso, qualche settimana fa si è espresso per la prima volta Paolo Giovagnoli, procuratore capo di Rimini.
«Allo stato - ha detto il magistrato che coordina la nuova inchiesta sulla morte del corridore - dalla relazione del professor Tagliaro (perito medico, ndr) non sono emersi elementi che facciano pensare ad un omicidio o a un’aggressione che abbia costretto Pantani ad assumere droga in quantità eccessiva».

Il caso Pantani - dicevamo - è diventato anche un caso letterario. Due i lavori appena usciti: Delitto Pantani: Ultimo chilometro (segreti e bugie) di Andrea Rossini, edito da NdA Press; Pantani è tornato di Davide De Zan, edito da Piem­me. Due tesi distinte: Rossini di­fende il lavoro svolto dalla Procura di Rimini dieci anni fa; De Zan sposa le tesi di De Rensis, l’avvocato della famiglia Pantani che con il suo lavoro ha trovato almeno 25 incongruenze che hanno indotto due Procure, quelle di Rimini e Forlì, a riaprire i casi, sia sulla morte che sui controlli di Madonna di Campiglio datati 5 giugno 1999. A De Zan e a Rossini abbiamo posto alcune domande, a voi sposare una delle due tesi.

Uno dei lati più oscuri di tutta questa vi­cenda è la pallina di mollica mista a co­caina che si vede nel video e nelle foto, ma che diversi testimoni nemmeno hanno visto.
Rossini: «Nel video del sopralluogo si vede che quando i poliziotti notano la pallina la scambiano per cotone. Sem­bra cotone, è cotone dicono tra loro. Solo l’autopsia dirà che era cocaina ricoperta di pane. L’idea che mi sono fatto è che qualcosa del genere (sarà cotone) sia potuto accadere anche per gli infermieri che, davanti al cadavere di Pantani, possano non aver notato o più probabilmente possano aver di­menticato il particolare di quel batuffolo accanto al corpo».
De Zan: «È uno dei fatti più inquietanti di tutta questa vicenda. Se un infermiere - mai ascoltato in tutta questa vicenda - decide di parlare solo in seguito a dei servizi giornalistici dedicati che han­no portato alla luce questa incongruenza, significa che dieci anni fa qualcosa non ha funzionato. È possibile che sei persone sei (quattro del 118 e due della volante) non abbiano visto nulla? Qualcuno deve spiegare come questo è stato possibile. E, soprattutto, come è possibile credere che Marco abbia masticato una pallina di pane mista a cocaina e poi l’abbia sputata e sia rimasta completamente bianca, nonostante lì vicino al corpo ci siano anche tracce di sangue».

Come è possibile che i reperti anatomici prelevati durante l’autopsia sul corpo del Pirata, siano stati distrutti?
AR. «La procura ha spiegato che per interrompere quel processo, noto perché appunto messo nero su bianco nelle sentenze, chi ha presentato l’esposto avrebbe potuto chiederne la conservazione in tempi utili visto che il lavoro di Avato, ad esempio sul filmato, era cominciato mesi prima. I reperti anatomici, tra l’altro, avrebbero potuto rivelare eventualmente solo delle patologie pregresse sfuggite ai precedenti esami. La causa della morte non è in discussione (cocaina) ed è per questo che l’ipotesi della riesumazione non viene presa in considerazione».
DDZ. «I reperti potevano essere distrutti nel novembre del 2011, quando il processo è arrivato in Cassazione. Stra­na­men­te questi reperti sono stati di­strutti (mese di aprile) quando è stato chiaro che il procedimento stava andando ver­so la riapertura del caso. Tutto lecito, per carità, ma la tempistica è per lo me­no strana».

Dieci anni fa, sul luogo del ritrovamento del corpo di Marco, non furono prese le impronte digitali.
AR. «Al contrario di quanto si vede nel­le serie tv, non è facile rilevare le im­pronte, specie in una stanza di hotel do­ve se ne possono trovare molte e sen­za attinenza con il fatto. La scena del crimine era stata, inoltre, contaminata dall’arrivo dei soccorritori».
DDZ.  Se le avessero prese, qualche zo­na d’ombra in meno ci sarebbe».

Uno dei cavalli di battaglia dell’avvocato De Rensis è dato dal disordine ordinato. Come è possibile mettere a soqquadro una stanza senza che nulla si rompa?
AR. «Solo Pantani può aver creato quello scenario, in preda ad una particolare forma di delirio, conseguenza dell’intossicazione acuta da cocaina, non ge­ne­ricamente aggressiva, ma più tipicamente “persecutorio paranoide”. Lo scompiglio, già osservato da testimoni in altre stanze dove Marco si era rinchiuso nei mesi precedenti per consumare droga (Cesenatico, Saturnia, L’Ava­na e l’Hotel Touring di Mira­ma­re), è frutto di un’ossessiva manipolazione alla ricerca di entità inesistenti e non di una furia distruttrice che induce a scagliare o spaccare gli oggetti».
DDZ. «Il giorno che una persona mi di­mostrerà che si può staccare dal muro uno specchio, buttarlo per terra senza romperlo, gli farò i miei complimenti. Chiunque abbia avuto modo di vedere il video fatto all’interno di quella stanza ha avuto la stessa sensazione: come si può buttare all’aria tutto senza rompere nulla? Lo ri­peto, io non ho la verità in tasca, ma almeno mi pongo delle do­mande. In questa storia mancano ve­ri­tà assolute e nel mio libro ho cercato per lo meno di cercarle, di portarle alla luce, con rigore e tenacia, separando i fatti dalle opinioni».

Una stanza messa a soqquadro e Marco non ha nemmeno un’unghia rotta.
AR. «Undici ferite o abrasioni. Undici in tutto. Secondo Fortuni di “modesto rilievo e superficiali”, quattro al capo; due degne di attenzione: oltre all’ecchimosi al sopracciglio, la tumefazione al naso, entrambe compatibili con l’ultima caduta dovuta al collasso. Le altre due abrasioni erano localizzate sull’altro lato della testa e sulla nuca. Per il resto dovrei ripetere quello che ho detto per il disordine ordinato».
DDZ. «Nella sua semplicità e nel suo dolore di mamma, Tonina dis­se immediatamente: “Ma come è possibile conciare così una stanza, sen­za nemmeno rompersi un’unghia?”. Mi piacerebbe anche che qualcuno spiegasse come sia possibile che un testimone parli di lavandino in mezzo alla stanza e dai video si vede chiaramente che è perfettamente al proprio posto. Non ho la verità in tasca, ma i lati oscu­ri li vedo solo io, l’avvocato De Ren­sis e la famiglia Pantani?».

Il Rolex rotto e l’ora della morte di Mar­co.
AR. «Legato all’orario c’è anche la circostanza del Rolex, fermo alle cinque meno cinque. Probabilmente dovuto al­la mancata ricarica o a un guasto mec­canico al bilanciere, ma precedente al giorno della morte. La mattina del 13 febbraio, infatti, Pantani alle 10.30 chiama la reception per ordinare il pranzo e quando l’impiegata (Lucia) risponde che è ancora presto, Pan­tani le chiede espressamente che ora fosse, “facendo così chiaramente intendere che lui non ne aveva idea”».
DDZ. «Io ho parlato con chi ha avuto per le mani quell’orologio. Mi hanno detto che quel Rolex aveva rotto l’asse del bilanciere. C’è chi dice che Marco abbia telefonato per chiedere che ora era. Mi sembra strano che Marco si te­nesse al polso un orologio rotto. Ma in tutta questa vicenda l’orologio è una virgola».

Sempre l’avvocato De Rensis punta l’indice sul video di quasi tre ore, e tagliato a soli 56 minuti.
AR. «Nell’esposto si sollevano interrogativi sulle interruzioni (una lunga di 30 minuti): che cosa nascondono i “sal­ti” tra una scena e l’altra? Niente è la risposta più ragionevole. Lo dimostrano proprio i cinque investigatori privi di guanti e indumenti di protezione che parlano e commentano a ruota libera. Il filmato, che paradossalmente è la principale fonte degli spunti per una ricostruzione alternativa dei fatti, era fa­coltativo. Sarebbe stato sufficiente al­legare agli atti le 180 foto a colori scattate sul posto».
DDZ. «È uno dei crucci dell’avvocato De Rensis. Ma la cosa più inquietante è co­sa mostra quel video, ad incominciare dal termometro atto a stabilire l’ora della morte di Marco. Nelle immagini si vede chiaramente che il medico non aveva il termometro tanatologico ma un termometro normale. L’esatta ora della morte è difficilissima da stabilire, ma anche in questo caso si è agito con assoluta leggerezza e superficialità come le immagini di quel video monco mostrano in maniera inequivocabile».

La Procura di Forlì ha riaperto anche il caso Madonna di Campiglio: è vero che l’autopsia ha escluso che Pantani abbia fatto uso di sostanze do­panti?
AR. «Sì, è vero. Ma solo nelle ultime settimane di vita. Un responso circoscritto nel tempo. Il Pirata non partecipava più ad una corsa dall’estate 2003, non si allenava da mesi. In assenza di grossolane alterazioni patologiche, il suo midollo presentava analogie con quello dei soggetti sottoposti a chemioterapia con elevata tossicità. Il consulente lo ritenne un quadro coerente con l’abuso di droga».
DDZ. «Verissimo. Dall’esame del midollo vengono fuori che non ci sono tracce evidenti di sostanze dopanti, alla faccia di tutti quelli che raccontano un’altra verità su Marco».

Ma allora a Campiglio è ipotizzabile dav­vero il complotto?
AR. «Se Marco era così tanto tranquillo, perché ogni sera si controllava il sangue con la “macchinetta” (cutler, una centrifuga, ndr )?».
DDZ. «Se uno avrà la pazienza di leggere il mio libro, scoprirà che quello che era un mistero ora non lo è più».

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di gennaio
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