TUTTOBICI | 22/06/2014 | 09:22 Ci sarà sempre una cosa intollerabile, del Giro d’Italia. Ed è il fatto che duri solo tre settimane. Già, neppure un mese intero di vacanza dalla ossessione quotidiana, dalle voci alte, dal clamore... Ci pensate, neanche un mese, e già siete/siamo re-invasi da Chiellini ed il pugno, da Strootman e lo sputo, da Icardi e Maxi Lopez, da Maradona e Gene Gnocchi, gran bel tandem da rimuovere, ... ci pensate, Buffon senza la Seredova ma con la D’Amico, mon dieu, un mondo alla rovescia, da contropedalare.
Ci sarà sempre una cosa intollerabile, del Giro d’Italia. E non entriamo nel merito delle cadute, delle rotonde, della safety-car, corollari di una manifestazione su strada che non sarà mai indoor: dal Bondone a Lavaredo, dalla vittoria di Meco su un Passo Rolle innevato al Van der Velde disperso sul Gavia nella tempesta del 1988... Non è mica il rettangolo incerto della fatalità.
È invece il rilievo che la Tv, non quella del ciclismo, ma la Tv dei telegiornali di stato, prodiga di attenzione a mille e una pinzillacchera, non abbia provato il rispettoso gusto nazionale dell’inserire quotidianamente nella strisciata dei sottotitoli - ma cosa o quanto sarebbe costato, di grazia? - almeno la notizia secca della tappa del giorno: primo X, a Pollena Trocchia. (Un Giro, d’altronde, non merita l’elemosina). Ma tant’è, il Giro d’Italia non arriva primo solo per i poveri di spirito che non lo conoscono, che non ne hanno mai respirato il profumo, o anche l’odore, o anche il balsamo. Tant’è, il Giro d’Italia è quell’universo intero primo dove un siciliano come Nibali o un sardo come Aru sono applauditi in Alto Adige o in Val d’Aosta, come se fossero a casa loro. Perchè l’Italia, quella del ciclismo, è Casa Popolare. Una. Unica. Dove la piazza sorride, sotto il sole e sotto la pioggia. Basta un ombrello rosa.
Il Giro d’Italia arriva primo, da Belfast a Trieste, per quel suo messaggio itinerante di pace, di condivisione, di esperanto emozionale e sentimentale. Sfortunati, superficiali, chi non lo capisce, o continua a privilegiare nelle finestre giornalistiche una noia sontuosa - disco rotto? - come il Gran Premio di Montecarlo. Il Giro d’Italia non è un pit-stop. È molto più vicino all’etica di Papa Francesco che va a Betlemme, che non alla estetica della Formula 1 del Principato. Il Giro d’Italia arriva primo, prima del Tour de France, non in ogni grande città - questo purtroppo, noi che non amiamo le città - lo sappiamo bene. Ma arriva primo dove si lavora. Dove si suda. Nei bar di paese, dove non esistono i fighetti, ma i braccianti o i contadini che si vedono l’arrivo del Giro durante la siesta. Nelle corsie di ospedale, dove c'è ancora - l’altro giorno - chi ti chiede che farà Aru, e se si sono fatti davvero tanto male a Montecassino, e che se non ci fosse il Giro, è come se non ci fosse maggio, bisognerebbe inventarlo. Il Giro d' Italia arriva primo, nei suoi giorni di montagna e nei suoi giorni di riposo e nei suoi giorni di pianura. Ed è capace pure di fare un miracolo inatteso. Di regalarti, a fine corsa quasi, un dono insperato. Come il messaggio, mercoledì 28 maggio, di una cugina amata che non vedevi da una esistenza intera, e che oggi vive a Pieve di Soligo. «Che bello, cugino, il Giro d’Italia sta passando proprio sotto casa mia...Ti ho pensato, sai...». Sarnonico-Vittorio Veneto, 17a tappa. Come quando sognavamo insieme, 50 e più anni fa, che il Giro sarebbe passato un giorno, un anno davvero, sotto i balconi fioriti della giovinezza di Sessa Aurunca. L’estate dei nostri anni, targata Giro d’Italia. L’Infinito del Giro d’Italia.
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