Mentre si corre all’aeroporto per ritornare totalmente italiani, una doverosa ammissione finale, che valga per sempre: all’estero lo fanno meglio. Italians do it better in tante altre cose, soprattutto in una (così dicono le dame di mezzo mondo), ma nelle partenze del Giro proprio no: per quanto ci possiamo impegnare e ingegnare, gli stranieri ormai organizzano e riempieno sempre di più e sempre meglio di noi. Non ci sono più dubbi, troppe le controprove: solo nell’era Duemila, come dimenticare i bagni di folla a Groningen, a Seraing, ad Amsterdam, a Herning, e adesso in Irlanda? Il format è collaudato: gli organizzatori annunciano la partenza lontano dall’Italia e subito l’Italia, che nel resto dell’anno parla di ciclismo solo per definirlo zozzo e drogato, s’indigna pesantemente. Ma che Giro d’Italia è se non parte dall’Italia? Ma che senso ha partire dall’Olanda, dal Belgio, dall’Irlanda?
Ragionando serenamente si prova a spiegare che ormai il grande sport è tutto internazionale, che all’estero pagano bene, anche due milioni di euro per i primi due o tre giorni di Giro, che all’estero il Giro è vissuto ancora come una griffe, che noi italiani dovremmo essere fieri di esportare un marchio ancora così apprezzato e riverito. Si prova, ma è tutto inutile. L’Italia che non si interessa mai del ciclismo improvvisamente si offende e si acciglia: diamine, il Giro è d’Italia e dall’Italia deve partire. Vergogna. Cinici e palancai. Non c’è più religione.
A questo punto io manderei in ogni singola casa di questi indignatissimi patrioti le registrazioni televisive delle partenze forestiere. Che se le guardino, che se le rivedano. E poi se possibile tacciano per sempre. Mentre qui si fatica a farsi pagare i conti arretrati (chiedere a Vegni e compagni quanti calorosi comitati di tappa italiani ancora devono tenere fede ai loro impegni), nel resto d’Europa saldano pronta cassa, ma soprattutto investono sull’avvenimento come si investe su una festa nazionale.
Intere città dipinte di rosa, convegni e mostre, concerti e centri studi, tutto concentrato sul valore aggiunto di una corsa storica che sa di mito Italia. Il nostro governo dovrebbe soltanto essere grato a queste operazioni culturali: senza spendere un euro pubblico, il Giro parla e fa parlare dell’Italia con valori e immagini irripetibili. Altro che i soldi buttati negli enti inutili della promozione turistica.
A me questa storia dell’Italia distratta che si accorge del Giro soltanto quando apprende che partirà all’estero ricorda molto certi mariti stanchi e annoiati: ormai ignorano di avere una moglie, se ne notano la presenza è solo per batterla ogni tanto, ma se solo qualcuno si azzarda a guardarla diventano subito dei leoni e danno di testa, colpiti nell’orgoglio.
Bisogna essere onesti e sinceri. Mi sforzo io per primo: sarei felicissimo che il Giro d’Italia partisse sempre in Italia. Sarebbe giusto. Sarebbe l’ideale. Ma se l’Italia dimostra sempre più freddezza e indifferenza, molto meglio prendere baracca e burattini per raggiungere Paesi ancora innamorati, ancora capaci di incantarsi, ancora beatamente felici di ospitare il sogno rosa. E’ bastata l’Irlanda, nel suo piccolo, per darci una grande lezione. Di organizzazione, di entusiamo, di partecipazione popolare. Amara ammissione? Da sempre tanti italiani sono costretti a cercare fortuna lontano dall’Italia. Ultimamente i migliori cervelli sono tutti con le valigie in mano. Davvero possiamo indignarci se espatria anche il Giro? Dirò di più: con l’aria che tira qui da noi con il ciclismo, perché non arrivare un giorno ad allargarci del tutto con il brand, passando finalmente a un bel Giro d’Europa?
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