Una rivoluzione. Trent’anni fa, il 19 gennaio 1984, Francesco Moser migliorò a Città del Messico il record dell’ora di Eddy Merckx, che sembrava inattaccabile, superando per la prima volta il muro dei 50 km (50,508) e ritoccando lo stesso primato quattro giorni più tardi (51,151). Da allora il ciclismo non è stato più lo stesso, perché grazie a Moser - e all’équipe scientifica della Enervit che seguì il campione trentino - cambiarono drasticamente i metodi di allenamento, la tecnologia e la meccanica applicate al mezzo meccanico, l’alimentazione degli atleti, la medicina dello sport, la programmazione e l’approccio agli appuntamenti agonistici.
Moser, che cosa ricorda soprattutto di quell’impresa?
«Che le cose andarono quasi esattamente come avevamo previsto, malgrado intorno a noi ci fosse molto scetticismo e anche qualche gufo».
È vero che il primo tentativo, il 19 gennaio, doveva essere solo un test sui 20 km?
«Avevamo deciso di vedere che tempo sarebbe venuto fuori a poco meno di metà gara, poi avremmo deciso se continuare o fermarci. Ma la fiducia era grande. E infatti andammo fino in fondo».
Per preparare quel record lei fu seguito da numerosi scienziati, di ben quattro Università: tra loro anche Conconi e Dal Monte...
«Persone eccezionali, che programmarono tutto alla perfezione. Anche per questo ero convinto di farcela».
Si parlò anche di emotrasfusione, pratica allora consentita ma vietata dall’Uci pochi mesi più tardi, dopo i Giochi di Los Angeles 1984.
«Qualcuno cercò di macchiare quell’impresa, ma nessuno di noi trasgredì le regole».
Sia sincero, lei l’emotrasfusione la fece o no?
«L’avete detto voi giornalisti, non io. E poi che senso hanno certe insinuazioni? È come se macchiassimo le vittorie di Bartali o di Coppi dicendo che allora si prendevano delle sostanze che molti anni più tardi sarebbero poi state vietate. Parliamo invece di come il record cambiò il ciclismo».
D’accordo, parliamone.
«Fui il primo a utilizzare una bici con quel telaio particolare, ruote lenticolari e manubrio a corna di bue. Eccezionali furono anche gli allenamenti, con cardiofrequenzimetro e prove ripetute in salita su bici da pista per poter spingere un rapporto da oltre 8 metri a pedalata. Poi nell’alimentazione fummo i primi a introdurre aminoacidi ramificati e integratori».
Ma in Messico furono decisivi anche i ravioli e i tortellini preparati dalla moglie del suo massaggiatore.
«La signora Gamberini era bravissima in cucina e anche laggiù faceva la pasta in casa per me e per tutti».
L’Uci le tolse però quei primati proprio per le caratteristiche speciali della sua bicicletta.
«Un’assurdità, anche perché le ruote lenticolari e i manubri particolari sono invece consentiti nelle cronometro su strada. Colpa di certi soloni dell’Uci. Così si è arrestata l’evoluzione tecnologica e il record non interessa più a nessuno. La gente non sa nemmeno chi sia il primatista. Lei lo sa?».
Il ceco Ondrej Sosenka, ciclista semisconosciuto. Per fortuna dicono che presto potrebbe provarci Fabian Cancellara...
«E sarebbe una gran cosa. Il record dell’ora devono tentarlo i fuoriclasse, solo così tornerebbe a entusiasmare la gente come 30 anni fa».
Il suo ciclismo era molto diverso da quello di oggi?
«Paragone difficile ma oggi sulle strade delle corse non c’è più nessuno. Una volta contavano le persone e la gente si entusiasmava per i campioni. Oggi pare che non ce ne siano più».
Moser, lei anni fa produceva biciclette ed era il leader sindacale dei corridori. Oggi invece si parla di lei più per suo figlio Ignazio o suo nipote Moreno, entrambi professionisti. Qualche rimpianto?
«No, va bene così. Sto di più in famiglia, vado a caccia, a sciare e ancora un po’ in bici. E soprattutto mi occupo delle mie vigne. Produco del vino bianco e rosso, oltre a uno spumante».
Che ha un nome importante...
«Già, si chiama 51,151, come il mio record dell’ora. Così almeno qualcuno se lo ricorderà».
da «La Stampa» del 15 gennaio 2014 a firma Giorgio Viberti