DAI, PARLACI DI CICLISMO

TUTTOBICI | 03/08/2013 | 09:28
Da tempo sognavo speravo pensavo di scrivere un articolo come questo. Dove parlo di me per parlare d’altro. Di una cosa importantissima anche se difficile da mettere nero sul bianco. Adesso tutto­BI­CI mi sollecita la consegna del pezzo, il tempo è poco, ho le at­tenuanti del dover fare in fretta, magari posso scrivere ciò che vo­glio, purché io scriva. Voilà.
Ho 78 anni, sono giornalista sportivo abusivo da più di 60,  giornalista regolarmente assunto (una specie in via di estinzione) da 53, giornalista pensionato da 22. Ho 3 figli e 8 nipoti. Scrivo ancora su giornali importanti e vado in giro a parlare di sport, trovando persino chi mi paga per avere in cambio il mio bla-bla-bla. Ho seguito 24 edizioni dei Giochi olimpici, fra estivi ed in­vernali, record giornalistico del mondo, 28 Giri ciclistici d’Italia, 12 di Francia, 7 Mon­diali di calcio, 11 di Formula 1, nonché una grande quantità di campionati mondiali ed europei di tanti sport, inclusi atletica e nuoto e ciclismo, di meeting internazionali ad alto livello. Su dieci uomini o enti che mi convocano per dibattiti, conferenze, tavole ro­tonde, insomma assortitissime me­nate di torrone, spesso pagate bene, nessuno mi chiede di parlare di calcio che non sia quello del Grande Torino - di cui sono stato testimone dal vivo - e casomai di Gigi Meroni (diciamo che lo fan­no 3 persone su 10), uno mi chiede di parlare di Olimpiadi, uno di parlare di doping, tutti gli altri di parlare di ciclismo. Eppure anagraficamente risulta chiaro che non posso avere frequentato Coppi, morto nel 1960, e che il mio Bartali era da tempo (1954) sceso di bici quando cominciò la nostra amicizia, mentre il mio Magni. concluso fisicamente da poco, fu sempre il terzo, un ter­zo.

Ciclismo però, sempre. Ci­clismo a go-go. A ol­tranza. Ciclismo pol­veroso, tarlato, stradatato. Ci­clismo perché sì.
Ciclismo di Baldini, di Nencini, di Gimondi, di Motta, di Sa­ron­ni, di Moser, di Pantani (oh Pantani). Ciclismo mio.
Persino i miei nipotini e anche ormai nipotoni mi chiedono di raccontar loro il ciclismo. Non ho ancora capito, forse anche perché non voglio capirlo, se lo fanno per compiacermi, se per controllare quanto sono bugiardo o almeno fantasioso, se per reagire al troppo calcio che li circonda, li permea, li soffoca, li condiziona, insomma li frega. Il più vecchio di loro, anni 19, ha scoperto ultimamente la bicicletta, ha deviato su magliette e birre e kebab i primi soldi strappatimi per pagargli lezioni di guida, passerà l’estate a Minorca facendo babysitteraggio in un club e an­dando in bici, è felice, dell’auto non gliene frega più niente. Non crede assolutamente che quando io avevo i suoi 19 anni andavo in strada per sentire tra la folla le radiotrasmissioni che dai bar mi raccontavano l’arrivo della tappa del Giro d’Ita­lia, però mi ha det­to - si è informato prima di partire - che a Minorca si trovano i giornali italiani così saprà delle corse in bicicletta. La sua cugina ultima, Anna, nata a giugno, alla sua terza poppata sembrava un corridore che aveva saltato il ri­fornimento.

Ho più volte scritto, an­che e so­prattutto su questo giornale, del crimine che commette chi, avendo in qualche modo la gestione di un patrimonio che si chiama ciclismo, si lascia sopraffare da al­tro sport, non conduce una in­telligente campagna di culto a pro della bicicletta, insomma dissipa un capitale. Ma ho sempre scomodato ipotesi, tesi, progetti, velleità. Adesso ci sono di mezzo i miei nipoti, la cosa si fa seria. Ci sono di mezzo io che, quando si pensava che l’estate non dovesse più arrivare, ho detto di sì a inviti per andare, a luglio e ad agosto, a parlare di ciclismo in giro per l’Italia. Non uno che mi abbia se­dotto e in­gaggiato per parlare di calcio o di altro sport che non sia in bici. Un Grande Torino, ecco, uno solo propostomi come te­ma: percentuale fisiologica, ma con l’assicurazione che si parlerà an­che del Tour de France.
Ho partecipato in giugno, sotto un sole ardente e in un caldo da fornace, con don Luigi Ciotti grande amico mio e dell’Italia dei giusti, ad una cerimonia su un picco che dà sul paese dove è na­to Cesare Peva­e­se, nelle Langhe che furono partigiane, si ricordavano cinque gio­vani trucidati dai nazifascisti. Al primo mo­mento di relax, ab­bia­mo cominciato a parlare di ci­clismo, io sotto tiro: dicci di Cop­pi, era davvero così forte? dicci di Pantani, davvero era drogato?, noi comunque lo abbiamo amato tanto. Mentre la riportavo a casa, a Torino, una mia studiosissima bellissima ni­pote, che è impegnata a fondo con Ciotti cioè con Libera contro le mafie, mi ha chiesto se voglio parlare a lei e amici e amiche di ciclismo, a raccontare la bicicletta, perché loro non vogliono ac­cettare che lo svago, la vacanza mentale sia­no tutto football e canzonette: che poi, mi ha fatto notare, si tratta di altro subdolo lavoro da coatti sfruttati, altro che svago.
Ecco, ho messo avanti esperienze personali. Sono liquidabilissimo: ma cosa ce ne frega delle tue pa­tur­nie superdatate? Ma se per caso io avessi un atomo di ragione a parlare di spreco, di crimine?

di Gian Paolo Ormezzano, da tuttoBICI di luglio
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COMMENTI
Bravò!
3 agosto 2013 11:39 gianni
Come mi sono gustato questo scritto: Gpo è un mito. Ho imparato con lui a leggere i giornali (struggente il ricordo del Tour '65, accompagnati dalla prosa - o dalla poesia? - di Ormezzano).
Un cordiale saluto.
Gianni Cometti

Grazie Ormezzano
3 agosto 2013 12:37 angelofrancini
Questo articolo di Ormezzano, dovrebbe diventare un saggio che tutti i Dirigenti del ciclismo (italiani e non) dovrebbero imprimersi in testa per imparare cosa significa “amare” il ciclismo e difenderne i suoi valori.
Questo non vuol dire disconoscere i “problemi” che il ciclismo ha e vive ogni giorno, non vuol dire nascondere la propria testa sotto terra come gli struzzi, ma vuol dire comunque prima di ogni cosa difendere quei valori che il “ciclismo” rappresenta e che ne fanno uno degli sport più amati dal pubblico, senza se e senza ma.
Ma questi Dirigenti, come leggiamo in alcuni articoli di questi giorni, non hanno questa “finalità” nel loro impegno nel mondo ciclistico, ma pare perseguano obbiettivi molto più “personalistici” e “terreni”.
Dalle lotte che emergono in ambito UCI sulle candidature alla Presidenza, che sono state precedute (quasi come banco di prova) da quelle che abbiamo vissuto all’interno della FCI a Levico, appare evidente che vi siano grossi interessi attorno a quelle “poltrone”, che poco hanno a che fare o spartire con l’amore, la passione, la difesa e la gestione negli interessi principali del movimento ciclistico.
Ormezzano scrive: “Ho più volte scritto, anche e soprattutto su questo giornale, del crimine che commette chi, avendo in qualche modo la gestione di un patrimonio che si chiama ciclismo, si lascia sopraffare da altro sport, non conduce una intelligente campagna di culto a pro della bicicletta, insomma dissipa un capitale”, riassumendo in poche righe una sorta di guida spirituale che dovrebbe illuminare chi è chiamato a governare (e purtroppo pare non lo faccia) il mondo del ciclismo agonistico ad ogni livello.
Credo che tali Dirigenti dovrebbero leggere la raccolta della rivista “La Buona Sera” che Ormezzano curava, ed anni orsono periodicamente pubblicava per conto dell’azienda dell’amico Alcide Cerato: sicuramente il loro modo di operare per il “mondo del ciclismo” ne trarrebbe giovamento poiché capirebbero la differenza sostanziale con cosa significa “VIVERE”.

Semplicemente GRANDE !!!
3 agosto 2013 13:23 passion
.... niente da aggiungere... una conferma.

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