
Per chi pensa che il cicloturismo sia una moda di oggi. Per chi ritiene che andare in bici sullo Spluga sia un’impresa solo da agonisti. Per chi crede che circumpedalare i laghi prealpini sia pericoloso. Per chi sostiene che, per illustrare, nulla sia meglio delle fotografie. Per chi giura che il turismo lento sia una teoria degli anni Duemila. E per chi ancora sia convinto che soltanto oggi si parli di turismo ecologico, esperienziale, letterario e artistico.
Pietro Berra ha curato un libriccino curioso e prezioso selezionando i testi che Elizabeth Robins aveva scritto e Joseph Pennell disegnato a proposito di “Gran tour in bicicletta tra il Lario e le Alpi” (New press edizioni, 76 pagine, 8,30 euro, traduzione di Claudia Cantaluppi). Robins e Pennell, statunitensi di Filadelfia, trasferitisi a Londra, avevano esplorato l’Italia a forza di pedali. Era il 1898. Erano stati avvertiti di prestare la massima attenzione, sarebbero stati vittime di raggiri commerciali, martiri di guai meccanici, schiavi di fatiche disumani. E’ vero che i due avevano scelto tricicli pesanti e ulteriormente appesantiti da bagagli con abbigliamento poco tecnico e molto elegante. Ma adottando le consuete precauzioni, come scendere dalla bici e spingere quando la strada s’impennava, la coppia di cicloturisti si godette giorni di felicità. Il Lago di Como, il Lago di Lugano, il Lago Maggiore, il Lago d’Orta, lo Spluga, ultimo capitoletto dedicato al dietro le quinte del viaggio sul Lario.
Robins era una viaggiatrice letteraria (mentre fa il giro del Lago di Como, “i brandelli del sentimentalismo, come disse con tristezza Howells”, “sventolano da ogni roccia, da ogni ulivo, da ogni arancio”), un’osservatrice concreta (i laghi “svizzeri hanno sempre un’aria allegra di laboriosità e parsimonia, quelli italiani suggeriscono indolenza e stravaganza”), una cronista naturalista (“Le rose millefiori che si arrampicano sui cipressi a Cadenabbia; i laburni che fanno penzolare i loro grappoli di fiori gialli dalle spaccature del Sasso Rancio; gli archi formati dagli oleandri a Varenna; i dirupi calcarei di San Martino; le prospettive magiche, serene, leonardesche, perfette delle lontane barriere dell’Adda”). Era anche una viandante attenta alle spese: “Ad Argegno c’era un albergo all’antica, con un pavimento in pietra nella mia camera da letto, per arrivare alla quale si doveva attraversare il soggiorno di famiglia”, “consumai la mia cena a un tavolino vicino alla porta principale, in compagnia di alcuni bambini che facevano piroette nel canale di scolo, e di un mulo vagante che passava così vicino da poter brucare la tovaglia”, “e di un paio di pifferai di passaggio che si fermarono a suonare per noi tutti”.
Quei giorni lacustri di fine secolo non furono solo felici, ma anche sorprendenti. “La cosa più assurda fu che a ogni stazione di frontiera i doganieri erano talmente assorbiti da vuote formalità che non si accorsero mai che trasportavamo del bagaglio sulle nostre biciclette. Le nostre borse non vennero mai aperte. Avremmo potuto contrabbandare tutto il brandy e i sigari e i fiammiferi e gli orologi che volevamo e nessuno se ne sarebbe mai accorto”.
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