
Corse undici Tour de France. In testa al gruppo. In testa perfino alla carovana. E le suonava a tutti. Yvette Horner aveva trent’anni ed era una fisarmonicista. Veniva da Tarbes, ai piedi dei Pirenei, terra di ciclismo e rugby - e il felice matrimonio lo si ammira ancora adesso nel centro erboso di una rotonda all’ingresso della cittadina dove sono piantati i pali di una porta da rugby -, era cresciuta a Rabastens-de-Bigorre, a una ventina di chilometri da Tarbes, aveva studiato a Tarbes, Tolosa e Parigi. Nel 1952 salì sulla Citroen Traction Avant pubblicitaria per la Calor, la marca di un ferro da stiro elettrico, si mise in piedi sul sedile posteriore, svettò dal tetto apribile e aperto, imbracciò la fisarmonica e cominciò a suonare per il Tour de France. E tutti s’innamorarono di lei: spettatori e corridori.
Famiglia di artisti, quella di Horner: i nonni materni dirigevano il Teatro imperiale all’italiana. Yvette aveva iniziato con il pianoforte. Fu la mamma a dirottarla verso la fisarmonica: aveva intuito la stranezza, l’originalità, l’unicità di una fisarmonicista. Per campare, Yvette si esibiva in concerti e campionati, in televisione, nei cinematografi e nei casinò, sulla macchina pubblicitaria – sombrero messicano e abiti vaporosi - durante le tappe e alla fine delle tappe sul podio accanto al vincitore. Di un repertorio sterminato, da Bach al jazz, di un’allegria contagiosa, per contratto e non, di una energia inesauribile, da forzata della strada. Tanto che nel 1954 fu ingaggiata per rallegrare anche la Sei Giorni pistaiola di Parigi. E Yvette sembrava il ritratto dell’allegria, anche se le sette ore di concerto quotidiano, tra fatica (lo strumento pesava una quindicina di chili) e sballottamenti (su salite e discese), si sentivano fin dentro le ossa. “Non avevo neanche la possibilità – confidava – di grattarmi il naso o scacciare le zanzare”. E suonava ancora finita la tappa, nel centro del paese o della città, anche fino alle due di notte. E la sveglia alle sei della mattina successiva. Si dice che, finito il Tour, le fossero necessari due mesi di riposo sui Vosgi per tornare a suonare. Qualche accorgimento fu preso per alleviarle i dolori, come suonare sul tetto della macchina, anche da seduta. Quando si tentò di sostituirla, ogni tanto, con un manichino creato a sua immagine e somiglianza, tipo sosia, il pubblico s’indignò e si adirò. Nel 2005, a un’asta, quel manichino venne comunque aggiudicato per 2200 euro.
Yvette riscosse un tale successo che suo marito, René Dresch, attaccante del Bordeaux, smise di giocare a calcio per diventare il suo autista in corsa. Scese dall’ammiraglia nel 1965, Yvette Horner, ma non dai palcoscenici. Sperimentò il possibile, suonando con Boy George, collaborando con Maurice Béjart, indossando Jean-Paul Gaultier. Si dice che nella sua carriera lunga 64 anni abbia tenuto duemila concerti, inciso 150 album e venduto 30 milioni di dischi. Al primo milione, a festeggiarla, c’era anche Jacques Anquetil. Ostriche e champagne!, c’è da scommetterlo.
Yvette Horner morì nel 2018, aveva quasi 96 anni. Sì: le aveva suonate a tutti.
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