
Se è vero che solo chi cade può risorgere, Remo Rocchia ha strabattuto Humphrey Bogart. Cuneese di Festione di Demonte in Val Stura, del 1951, quattro anni da professionista fra Cuneo-Benotto (1976), Vibor (1977 e 1978) e Cbm Fast-Gaggia (1979), per destino o distrazione, per una macchia d’olio o un’incrinatura dell’asfalto, per una gomitata o una slittata, Rocchia cadeva sempre sul più bello. Giravolte. Anche su sé stesso.
Rocchia, perché la bicicletta?
“Per necessità. Famiglia poverissima, io il nono di dieci figli, papà contadino, ma di montagna, tre o quattro mucche, patate, grano, fieno, castagne. Dopo la quinta elementare mi arrangiavo facendo lavoretti da apprendista e frequentando le serali. Da metalmeccanico in un’officina a falegname in un mobilificio. Per spostarmi, ecco la bici. La prima non era da corsa, la seconda sì, acquistata con i miei risparmi di una vendemmia in Francia e una mano da mio fratello, era un’Atala. E con quella, da esordiente, due gare e due cadute. Ma non era colpa mia: la bici, quando frenavo, s’impennava. Mi allenavo solo quando potevo. La sera, magari il sabato, e la domenica quando non c’erano corse. Sempre in salita. Verso il Colle della Maddalena”.
Poi?
“Allievo, mai vinto, però piazzato. Nella Carasso-Mondovì caddi, ma fui notato, vuoi venire da noi il prossimo anno?, risposi sì grazie, ottenni bici e maglia e altri piazzamenti. In salita me la cavavo. Dilettante, in una rappresentativa italiana con maglia azzurra, in Spagna, alla Vuelta di Tarragona, vinsi una tappa dura. C’era anche Bernard Hinault con la maglia della Bretagna. Mi chiesero se volessi andare a correre con lui, per lui. Perché correre, pensai, per uno che arriva dopo di me? E risposi no grazie. Non sapevo, non capivo, forse non avevo coraggio, non ero seguito da nessuno, mi sentivo solo e spaesato”.
Neoprofessionista?
“Decimo al Laigueglia, sesto a Valencia, alla partenza della Milano-Sanremo, al Castello Sforzesco, tremavo come una foglia per l’emozione, c’erano tutti i campioni, da Merckx a Gimondi, da Poulidor a Thevenet, da Maertens a Moser, quartultimo ma la finii. Poi nono all’Appennino: salite a piacere. Poi il Giro di Svizzera: salite a volontà. La seconda tappa me ne andai da solo, a 250 metri dal traguardo avevo 50 metri di vantaggio, e forse per l’emozione, forse per la fatica, forse per l’inesperienza, fui rimontato e superato in volata con un colpo di reni dal belga Michel Pollentier. Quel giorno caddi dal paradiso. Una vittoria avrebbe potuto cambiare la mia carriera. Il giorno dopo staccai Pollentier, ma davanti a noi ce n’erano altri tre”.
Nel 1977…
“Tirreno-Adriatico, prima tappa, salita finale di 9 km, dura, da solo, poi raggiunto e superato da Vandi e De Vlaeminck, ma davanti a Saronni e Moser. E ancora davanti nella terza tappa, primo de Vlaeminck, secondo Saronni, terzo Moser, io settimo. Poi il Giro d’Italia. Lo finii ventitreesimo, mica tanto bene, aspiravo ad arrivare fra decimo e quindicesimo, mi fu fatale l’ultima settimana, pioveva sempre, beccai la bronchite, così dove finalmente c’erano le montagne, non c’ero più io. Come nella tappa di San Pellegrino, in salita ero davanti, in discesa mi staccai, non mi sentivo di rischiare, ero leggerino, scivolavo, non volevo cadere”.
Altri ricordi?
“Il Giro della Val d’Aosta, una montagna dopo l’altra, piazzamenti e cadute. Un’altra Milano-Sanremo, due cadute, la seconda prima del Turchino, qui coinvolto anche De Vlaeminck, io mi rialzai, lui pure, la sua squadra – la Brooklyn – fu fermata per aiutarlo a rientrare, mi agganciai al trenino e prima della galleria eravamo già dentro il gruppo. Due Giri di Lombardia, quelle salite mi sarebbero piaciute, ma una volta gregario per Panizza, l’altra per Visentini, la prima parte si tirava il gruppo e la seconda si tiravano i remi – il mio nome mi aiutava – in barca. E la cronoscalata del Mont Faron al Giro del Mediterraneo del 1977, una delle ultime vittorie di Merckx, io nono con lo stesso tempo di Poulidor, anche se lui era vecchio e io giovane”.
Altre occasioni?
“Una, ma perduta. Nel 1979, al Giro del Trentino, altro regno di salite. La prima tappa caddi in salita, forse su una macchia d’olio, sbattei il ginocchio, due mesi fermo, saltai il Giro, il contratto si trovava e si firmava proprio al Giro e così non lo trovai. A fine stagione lasciai la bici e saltai su una macchina, viaggiatore per un laboratorio fotografico per andare a trovare i clienti, un lavoro fatto per 29 anni, un sacco di chilometri, ogni volta un giro d’Italia”.
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