“Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato”.
E’ il celeberrimo attacco che Dino Buzzati scrisse per il “Corriere della Sera” il giorno della Cuneo-Pinerolo al Giro d’Italia 1949, paragonando Coppi ad Achille e Bartali a Ettore. Omerico, Buzzati stava vivendo e scrivendo della corsa delle corse, della tappa delle tappe, dell’impresa delle imprese. E i sentimenti mai dimenticati, da quel giorno, li ha trasmessi, comnumicati, tramandati per sempre. Anche a chi non lo ha mai letto, ma è stato capace di vedere, oltre che guardare, e di vivere, oltre che di assistere, e di sentire, oltre che di ascoltare il ciclismo.
Guido Curti amava il ciclismo perché folgorato da Buzzati. Si divertiva ai racconti dei gregari, si incollava alle immagini del Giro e del Tour, leggeva anche seguaci ed eredi dei vecchi cronisti e degli stupefatti scrittori che seguivano, descrivevano, s’ispiravano alle storie in bicicletta. Ma quelle folgorazioni, è comprensibile, non le ritrovò più.
E’ per questa passione che Stella Curti, in memoria del fratello Guido, ha organizzato un incontro su Dino Buzzati nel cinquantesimo della morte del giornalista, scrittore e pittore. Domani, alle 18.30, nella Fondazione Francesco Pasquinelli, in corso Magenta 42, a Milano. Ci saranno Patrizia Dalla Rosa, responsabile della ricerca del Centro studi Dino Buzzati a Belluno; Lorenzo Viganò, giornalista e curatore delle opere di Buzzati; e Andrea Kerbaker, scrittore.
Speriamo che ci sia anche un po’ di quel ciclismo con cui Buzzati folgorò, fra gli altri, Curti. Il Giro d’Italia in bicicletta come “una delle ultime città della fantasia, un caposaldo del romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso, e che rifiuta di arrendersi”. E i corridori visti come “cavalieri erranti che partono a una guerra senza terre da conquistare”; o come “giovani schiavi prigionieri di un orco che li ha legati a una macina di piombo ed essi girano, sferzati a sangue, e dai boschi intorno le loro donne chiamano, piangendo, ma gli schiavi non possono rispondere”; o come “dei pazzi. Perché potrebbero fare la stessa strada senza fatica e invece faticano da bestie, potrebbero andare adagio e invece sfacchinano per correre presto, potrebbero quasi tutti guadagnare gli stessi soldi senza soffrire e invece preferiscono il supplizio”; o forse come “dei monaci: di una speciale confraternita che ha le sue dure leggi. Ciascuno spera nella grazia, ma a pochissimi, uno o due per decennio, la grazia viene concessa. Tuttavia continuano, perché sanno che nei pochi eletti il mondo riconoscerà, senza neppure immaginarlo, una specie di investitura sacra”.
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