STORIA | 08/11/2017 | 07:08 Era una forza della natura. Vent’anni, razza Piave, energie contadine. Avrebbe trionfato a piedi, sugli sci, perfino a nuoto. Ma la sua passione era la bici. E con quella conquistò due tappe e la classifica finale della prima edizione del Tour de l’Avenir. L’Italia – si disse, si scrisse, si sognò – aveva già trovato, 18 mesi dopo la sua morte, un altro Fausto Coppi.
Guido De Rosso da Farra di Soligo. La prima scuola in famiglia: “Il papà, Giovanni, a lavorare nei campi: grano, frumento, viti, bachi da seta. La mamma, Silvia, a lavorare a casa: mangiare, lavare, quadrare i conti. E cinque figli: Maria, Gregorio, Renzo, io e Cesare”. La prima famiglia a scuola: “Fino alla quinta elementare, poi la sesta, che a quel tempo era come il master”. Il primo lavoro: “Nei campi, con il papà”. Il secondo: “Muratore, a 16 anni”. Intanto la bici: “La prima: una Cicli Piave, normale, manubrio diritto, parafanghi e copertoni, divisa tra i quattro fratelli, e ciascuno ne aveva diritto una domenica al mese”. Ancora la bici: “La seconda: una Stella Veneta, azzurrina chiara, da corsa”.
Pronti, via. La prima corsa: “Per giovani non tesserati, allo sbaraglio, traffico libero. Da Conegliano a Sella di Fadalto. Maglia tipo Arlecchino, ereditata, rappezzata, rattoppata, con le croste delle cuciture”. La seconda corsa: “Allievo, a 18 anni, a Follina. Maglia azzurra a fasce gialle della Società ciclistica Conegliano, braghette corte normali, 180 partenti, prima caduta, mi rialzo e inseguo, seconda caduta, mi rialzo e inseguo, terza caduta, mani a terra senza guanti, mi rovino e mi ritiro, e poi imboccato per una settimana”. La prima vittoria: “Allievo, a Refrontolo, con un tratto di strada bianca. Il primo fora, io sono secondo, lo passo e vinco”. Ma quello che il ciclismo regala, poi toglie: “Da dilettante, la Bassano-Monte Grappa. Il primo fora, il secondo lo passa e vince. Solo che stavolta il primo, quello che fora, sono io”.
Il Tour de l’Avenir lo lancia: “Severino Rigoni, il mio direttore sportivo alla Padovani, mi dice di passare professionista nella Molteni, ché non c’è un capitano forte. E io ci vado”. L’esordio: “Giro di Sardegna, due tappe alla fine, ottavo in classifica. Broncopolmonite, la trascuro, ci corro su. Da quel giorno soffrirò sempre il freddo e gli sbalzi di temperatura”.
Otto anni da professionista (cinque nella Molteni, uno nella Vittadello, due nella Faema), una dozzina di vittorie (fra cui il campionato italiano, in tre prove, del 1964) e mille avventure. Fra Coppi (“Ero coppiano. E quando venni a sapere della sua morte, scoppiai a piangere”) e Bartali (“Non mi dispiaceva. E fu il mio direttore tecnico alla Vittadello”), fra squadre (“Alla Molteni, se chiedevi un tubolare, te ne davano due. Alla Faema, se chiedevi un tubolare, dovevi restituire quello vecchio”) e premi (“Un fucile da caccia da dilettante, tenuto, un toro al Giro d’Italia, venduto la sera stessa”), fra regole (“Riso in bianco e bistecca, a quintali, niente aceto ma limone, poca acqua e un solo bicchiere, ma neanche sempre, di vino”) e consigli (“Fiorenzo Magni sosteneva che meno si prende, meglio è”), fra fenomeni (“Meo Venturelli, anche se poco allenato, ci staccava in allenamento”) e campioni (“Eddy Merckx mi chiedeva come stessi, gli rispondevo che avevo mal di gambe, lui diceva ‘anch’io’, poi però partiva e non lo vedevi più”), fra crisi di fame (“Giro d’Italia 1962, la tappa di Saint-Vincent, scattai come una fucilata, saltai il rifornimento di Aosta e non presi il sacchetto, a un certo punto non vedevo più neanche la strada”) e di freddo (“Sempre quel Giro, la tappa di Moena fermata al Passo Rolle, se mi fossi ritirato sarebbe stato meglio, alla fine in cinque o sei in un letto matrimoniale, congelati, chi implorava ‘aiuto’ e chi chiamava ‘mamma’”), fra allucinazioni (“Tour de France, Izoard, vidi il gruppo sul tornante davanti, poi mi voltai indietro, e vidi lo stesso gruppo sul tornante dietro”) e decisioni (“Puoi fare altri due anni, mi diceva Marino Vigna, ma io, dopo quello che era successo a Merckx nella tappa di Savona, avevo deciso che era meglio smettere di correre”).
Incontrato al Premio Borraccia d’oro, De Rosso viaggia verso i 78 anni, viaggia nella memoria, e viaggia ancora in bici: “Ma da donna, con il cestino per la spesa, a spasso per il paese”.
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