L'ORA DEL PASTO. «VASCO BERGAMASCHI? VI RACCONTIAMO NOI IL NOSTRO DIESSE...»

STORIA | 09/04/2025 | 08:20
di Marco Pastonesi

Accadde all’improvviso. La notte fra il 15 e il 16 febbraio 1964. Pierino Bertolazzo, direttore sportivo della Cynar, morì d’infarto. Si trovava a Diano Marina, nell’Hotel Tiziana, gestito dalla famiglia Bersano di quella ragazza – Tiziana, appunto - che sarebbe diventata la moglie di Felice Gimondi. Alfredo Binda, il general manager della squadra italo-svizzera, prima avvertì i famigliari di Bertolazzo, poi chiamò un tecnico che lo potesse sostituire. Vasco Bergamaschi. Singapore. Che stasera alle 21 sarà ricordato e omaggiato dalla sua San Giacomo delle Segnate, nell’auditorium, a 90 anni di distanza dalla vittoria conquistata, da gregario diventato capitano sulla strada, nel Giro d’Italia (QUI il nostro articolo).


Dopo la Seconda guerra mondiale, Bergamaschi era tornato al ciclismo. Prima nove anni alla Torpado, a coltivare il talento di Nino Defilippis e Angelo Conterno, valorizzare la gioventù di Aldo Moser e Cleto Maule, affidarsi all’energia di Guido Boni e Giovanni Pettinati, puntare sulle voglie di Renato Giusti e Guido Neri. Poi in quella Cynar, fra gli svizzeri Rolf Maurer, fra gli italiani Franco Balmamion, Diego Ronchini e Dino Zandegù. Singapore aveva vissuto l’epoca di Binda e Learco Guerra, poi quella di Gino Bartali e del primo Fausto Coppi. Conosceva, sapeva. Aveva sofferto, aveva visto. Avrebbe tramandato, avrebbe insegnato.


Vasco era un papà, un bravo papà – ricorda Giusti, con lui nella Torpado dal 1959 al 1962 -. Un gentiluomo. Mai arrabbiato. Apparteneva alla vecchia scuola, ma allora la scuola era unica, quella, quella dell’allenarsi e correre, del riso in bianco e della bistecca anche alle cinque e mezzo del mattino, al massimo del minestrone, quella dell’andare a letto presto la sera e dello svegliarsi presto la mattina. Da casa mia a casa sua era una sessantina di chilometri, ci andavo in allenamento, lo trovavo nella sua bottega da ciclista, mi parlava in mantovano e mi voleva bene, soprattutto dopo che vinsi le due tappe al Giro d’Italia del 1961”.

Vasco era una brava persona – dice Franco Lotti, con lui nella Cynar nel 1964 -: sano, semplice, giusto, non molto deciso, un uomo della vecchia generazione. Non dettava comandamenti, ma dava consigli. Gli allenamenti, formando vari gruppetti, obbligando a un giro più lungo chi fosse indietro nella preparazione o avanti nell’alimentazione. Quando venne il Giro d’Italia fu scelto uno svizzero in più e un italiano in meno: io. Mi rifeci al Giro del Lussemburgo: il terzo posto nella cronosquadre, il nono in una semitappa”. Lotti convive con un dubbio: “Quella sera nell’Hotel Tiziana mi ero presentato a un ricevimento in abiti borghesi e non nella tuta della squadra. Non lo sapevo. Il padrone della Cynar si arrabbiò, Bertolazzo mi difese, poi si sentì male”.

“Vasco era un brav’uomo – spiega Balmamion, con lui nella Cynar nel 1964 -. Ma al Giro d’Italia ci furono due occasioni in cui avrebbe potuto aiutarmi. La prima nella terza tappa, quella di San Pellegrino, forai e rimasi per 1’15” da solo con la ruota in mano ad aspettare l’ammiraglia. La seconda nell’ottava tappa, quella di Pedavena, la discesa dal Croce d’Aune, bruttissima e sterrata, una strage di gomme, forai e rimasi per 1’15” un’altra volta da solo con la ruota in mano, lui aveva scelto di seguire Maurer. A Milano non avrei vinto, Jacques Anquetil era imbattibile, ma forse sarei arrivato secondo invece che ottavo”.

Vasco era elegante, consapevole, pratico – aggiunge Zandegù, con lui nella Cynar nel 1964 -. Una volta lo feci diventare matto. Mercoledì 30 settembre 1964. Gran Prix du Parisien. A Parigi. Una cronosquadre – sei corridori per squadra -, una specie di campionato del mondo a squadre, antenata di quella corsa che sarebbe stata inventata 50 anni dopo. Distanza: 131 chilometri. Percorso: su e giù. Bergamaschi, per la par condicio (e trattandosi di un aperitivo, anche per la bar condicio), scelse tre italiani, Balmamion, Ronchini e me, e tre svizzeri, Maurer, Roland Zoeffel e Werner Weber. Pronti, via, a tutta, ma io ero in una maledetta giornata-no. Finché cedetti, mi staccai e venni ripreso dalla Saint Raphael-Gitane-Dunlop, la squadra capitanata dal tedesco Rudi Altig, partita dopo di noi. Ma ecco il mio smisurato orgoglio. Invece di mollare e abbandonare, invece di scendere dalla bici e salire su un camion-scopa, mi accodai al ‘trenino’ avversario, recuperai le forze e a sorpresa – loro ma anche mia - cominciai ad andare, girare e tirare. Un po’ per dimostrare il mio valore di cronoman e un po’ nel tentativo di rientrare sui miei compagni. Altig e compagni non rifiutarono l’insperato sostegno, anzi, mi incoraggiavano: allez, allez, allez, che significa alé, alé, alé. L’incitamento mi galvanizzò. E io mi impegnai. Fu una corsa fantastica. La Cynar, nonostante la mia assenza, stabilì il migliore tempo fino a quando piombò sul traguardo la Saint Raphael-Gitane-Dunlop, forte di Altig, ma anche di me. Classifica finale: prima la Saint Raphael-Gitane-Dunlop, seconda la Cynar. I miei compagni ci rimasero male, Bergamaschi malissimo”.


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